Dal 1991 ad oggi, il potere d’acquisto in Italia ha registrato un calo del 2,9%. Questo dato, contenuto nel rapporto della Fondazione Di Vittorio sui salari e le disuguaglianze, ci racconta una storia amara. Mentre i nostri vicini europei, come la Francia, la Germania e la Spagna, vedono i loro salari crescere rispettivamente del 30%, 22,6% e 9%, l’Italia resta una delle poche eccezioni. La realtà per i lavoratori italiani è ben lontana dall’idea di un miglioramento economico costante. Un paradosso che si fa sempre più evidente quando si mettono a confronto i dati economici di oggi con quelli di un passato non troppo remoto.
La crescita dei salari in Italia è stata stagnante e persino negativa, un segnale preoccupante che sta diventando una delle cause principali delle disuguaglianze sociali e economiche nel nostro Paese. Un’opera di impoverimento sistematico che ha colpito soprattutto i lavoratori più vulnerabili. Infatti, se guardiamo ai numeri, il divario tra i salari italiani e quelli di altre nazioni europee è notevole: i lavoratori tedeschi guadagnano circa 10.000 euro in più rispetto al 1991, i francesi circa 9.000 euro, mentre i lavoratori spagnoli hanno visto aumentare il loro stipendio di oltre 2.000 euro. Un abisso, quello con l’Italia, che non può passare inosservato.
La discesa continua del potere d’acquisto si è accelerata negli ultimi anni. Tra il 2021 e il 2023, la retribuzione media contrattuale in Italia si è mantenuta ben al di sotto dei livelli auspicati, con perdite che ammontano a migliaia di euro all’anno. Nel 2021, la retribuzione media era di circa 26.660 euro, ma se fosse stata adeguata all’inflazione, sarebbe dovuta salire a 27.041 euro. La perdita netta di 381 euro in quel periodo è solo il preludio di una spirale che ha visto crescere la differenza salariale, arrivando nel 2022 a una perdita di 1.526 euro, nel 2023 a 2.271 euro e, nel 2024, addirittura a 1.438 euro.
Un fenomeno che non sembra destinato a fermarsi, anzi. Se le stime ufficiali dovessero rivelarsi accurate, la perdita salariale cumulata per i lavoratori italiani potrebbe superare i 15.500 euro entro il 2029, generando un vero e proprio buco strutturale nelle tasche dei cittadini.
Salari, profitti e disuguaglianze
Il quadro che emerge dalle analisi della Fondazione Di Vittorio non riguarda solo una questione economica, ma tocca anche le radici stesse del nostro modello di sviluppo. Negli ultimi decenni, infatti, una parte sempre maggiore del reddito si è spostata dai salari ai profitti, contribuendo al declino della quota di PIL destinata ai lavoratori. Questo fenomeno ha dato vita a una crescita economica diseguale, sostenuta più dal profitto che dalla redistribuzione delle risorse. Si è consolidato un modello che si regge sulle disuguaglianze e che sembra incapace di garantire una prosperità duratura per tutti.
La crisi finanziaria del 2008, l’emergenza Covid-19 e l’attuale crisi energetica, scatenata dall’aggressione russa in Ucraina, hanno aggravato una situazione già delicata. In questi contesti di grande difficoltà, l’Italia è l’unico Paese europeo in cui i salari sono diminuiti rispetto al 1991. Un paradosso che rende ancor più evidente la distanza tra il nostro Paese e le economie più forti del continente.
In Francia e Germania, ad esempio, i salari sono cresciuti rispettivamente del 30% e del 22,6%, portando a un miglioramento significativo del potere d’acquisto. Al contrario, in Italia, i salari sono rimasti sostanzialmente fermi, se non addirittura in calo. Questa differenza si riflette in una qualità della vita che, in Italia, fatica a stare al passo con quella degli altri Paesi europei, e in una perdita di competitività che mette a rischio il futuro dell’economia italiana.
L’Italia si trova dunque a un bivio: da un lato, il modello di sviluppo che ha dominato negli ultimi decenni sembra giunto al capolinea, incapace di garantire una crescita sana e sostenibile; dall’altro, l’esigenza di un cambio di rotta è ormai urgente, e la questione salariale non può più essere ignorata.
La manovra di bilancio e le rivendicazioni sindacali
La manovra di bilancio, e in particolare le misure destinate ai salari, è al centro del dibattito politico e sindacale. La Cgil e la Uil hanno proclamato uno sciopero generale per il 29 novembre, chiedendo un cambiamento radicale delle politiche economiche, in particolare in tema di salari e pensioni. La mobilitazione è anche una risposta alla crescente insoddisfazione dei lavoratori, che da troppo tempo vedono il loro potere d’acquisto eroso senza un adeguato intervento del governo.
A un mese dalla presentazione della manovra, i sindacati sono pronti a scendere in piazza per chiedere un aumento delle risorse destinate alla sanità, all’istruzione, ai servizi pubblici e alle politiche industriali. L’obiettivo principale è quello di contrastare una stagnazione salariale che, se non affrontata, rischia di diventare strutturale. Le stime sugli effetti dell’inflazione, se non controbilanciati da rinnovi contrattuali significativi, indicano una perdita netta che potrebbe superare i 15.000 euro nel giro di pochi anni.
In questo scenario, i rinnovi contrattuali rappresentano una delle principali leve per il recupero salariale. Il commercio, il credito, le assicurazioni, i metalmeccanici, il legno e l’industria alimentare sono solo alcuni dei settori in cui i contratti hanno portato a incrementi significativi. Tuttavia, non tutti i settori hanno visto un adeguamento tempestivo. In alcuni casi, i ritardi sono stati pesanti: per esempio, il contratto del commercio è stato rinnovato con ben quattro anni di ritardo, un fatto che ha pesato negativamente sulle tasche dei lavoratori del settore.