Ecco Hilda, la prima vitellina a emissioni (quasi) zero

Alla base del progetto Cool Cows c’è la selezione genetica dei bovini che producono meno metano grazie a una flora batterica speciale
7 Gennaio 2025
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Hilda Vitella Canva
Una piccola vitella_Canva

È nata Hilda, la prima vitellina che promette di ridurre le emissioni di carbonio, un grande nemico del clima. Frutto del progetto Cool Cows, Hilda è nata nel verde delle campagne scozzesi, precisamente a Dumfries e potrebbe inaugurare una nuova era della lotta al cambiamento climatico. Va ricordato, infatti, che gli allevamenti intensivi sono il settore più inquinante al mondo, considerando sia le emissioni (principalmente di metano) sia le risorse consumate per rendere ‘produttivi’ gli animali.

Come funziona il progetto Cool Cows

Hilda è la prima vitellina nata nell’ambito del Cool Cows Project, promosso dallo Scotland’s Rural College (Sruc). L’idea alla base del progetto è semplice ma rivoluzionaria: selezionare geneticamente i bovini che producono meno metano grazie a una flora batterica specifica nel loro rumine.

Attraverso la fecondazione in vitro, si è accelerata la selezione genetica di bovini come Hilda, riducendo di otto mesi i tempi per ottenere una nuova generazione con queste caratteristiche sostenibili. La tecnica non coinvolge manipolazioni genetiche, ma applica metodi consolidati e già utilizzati in molti allevamenti italiani (dove il 90% dei vitelli nasce attraverso fecondazione artificiale). Insomma, Hilda non è un OGM perché Cool Cows intreccia genetica tradizionale e scienza moderna per affrontare uno dei problemi ambientali più urgenti senza manipolare il DNA degli animali.

L’impatto degli allevamenti intensivi

L’allevamento intensivo è una pratica agricola che ha un impatto significativo sull’ambiente, contribuendo a vari tipi di inquinamento, tra cui quello dell’aria, dell’acqua e del suolo. Le cause principali di questo inquinamento possono essere suddivise in emissioni di gas serra, consumo eccessivo di risorse idriche, e l’uso di fertilizzanti e pesticidi.

Secondo i dati Fao, gli allevamenti intensivi sono responsabili di circa il 14,5% delle emissioni totali di gas serra di origine antropica. Tra queste, il metano rappresenta il 44% e deriva principalmente da:

  • Fermentazione enterica: un processo che avviene nel rumine, lo stomaco dei bovini, durante la digestione;
  • Gestione delle deiezioni animali: rifiuti organici che generano metano e protossido di azoto, altro gas serra altamente impattante.

Un singolo bovino può produrre fino a 120 kg di metano ogni anno, e con oltre 1,5 miliardi di capi allevati nel mondo, l’impatto diventa rapidamente gigantesco. La scala del problema è amplificata dalla crescente domanda globale di carne e latticini, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.

Se da un lato la scienza offre soluzioni innovative come Hilda, dall’altro si registra una riduzione significativa del numero di bovini allevati in paesi come l’Italia, dove i capi sono diminuiti del 40% negli ultimi 30 anni. Ciò ha contribuito a mitigare le emissioni locali, ma il trend globale va nella direzione opposta, con nazioni come Cina, India e Brasile che vedono crescere rapidamente il numero di capi per soddisfare la domanda.

Perché il metano è così dannoso?

Il metano è un gas serra che ha un potere riscaldante circa 28 volte superiore alla CO₂. Sebbene si degradi più rapidamente, in circa 11-12 anni, il suo accumulo contribuisce significativamente al riscaldamento globale. Negli ultimi 40 anni, la sua concentrazione atmosferica è cresciuta del 19%, passando da 1.630 ppb nel 1985 a 1.940 ppb nel 2024.

È importante distinguere tra:

  • Metano biologico: come quello emesso dai bovini, parte di un ciclo naturale e a breve termine.
  • Metano fossile: derivante da estrazione e combustione di fonti non rinnovabili, che aggiunge carbonio “nuovo” all’atmosfera, contribuendo a un riscaldamento permanente.

Nonostante alcuni studi abbiano suggerito che l’impatto del metano dei bovini possa essere stato sovrastimato, la zootecnia resta il settore più inquinante e “abusato”: il consumo di carne globale è decisamente superiore a quello necessario per gli esseri umani, che spesso ne ignorano le conseguenze sulla salute propria e dell’ambiente.

L’allevamento intensivo è infatti responsabile di circa il 14,5% delle emissioni globali di gas serra. I principali gas emessi includono:

– Metano: prodotto principalmente dalla digestione dei ruminanti e dalle deiezioni animali, rappresenta circa il 37% delle emissioni mondiali di metano. Anche le deiezioni non solide incidono, tanto che la Danimarca tasserà le flatulenze del bestiame per ridurre le emissioni di gas serra.

– Protossido di azoto: generato dall’uso di fertilizzanti chimici, contribuisce per il 65% delle emissioni mondiali di questo gas.

Queste emissioni sono molto più potenti rispetto all’anidride carbonica (CO2), rendendo l’allevamento intensivo un fattore chiave nel cambiamento climatico. In Europa, gli allevamenti intensivi emettono l’equivalente di 502 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, superando le emissioni provenienti da tutte le automobili. Per questo, l’Ue sta cercando di promuovere alternative sostenibili e respinge le proposte di Paesi come l’Italia e l’Ungheria che vogliono vietare la carne coltivata.

Consumo idrico e inquinamento delle acque

Il settore dell’allevamento intensivo consuma circa un terzo dell’acqua utilizzata nel settore agricolo. Per produrre un chilo di carne bovina sono necessari oltre 15.000 litri d’acqua, considerando non solo l’acqua per dissetare gli animali ma anche quella necessaria per irrigare i campi destinati alla produzione di mangimi. Questo massiccio consumo idrico è insostenibile, soprattutto in periodi di siccità e scarsità d’acqua.

Le pratiche degli allevamenti intensivi portano anche a significativi problemi di inquinamento delle acque. L’uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi nelle coltivazioni destinate al mangime degli animali provoca il rilascio di nutrienti come nitrati nelle acque superficiali e sotterranee. Questi nitrati possono superare i limiti consentiti, causando gravi problemi sanitari come tumori e malattie gastrointestinali.

Inoltre, il letame prodotto in grandi quantità dagli allevamenti, oltre a produrre metano, è spesso gestito in modo inadeguato, contribuendo ulteriormente all’inquinamento delle risorse idriche attraverso la contaminazione del suolo e delle falde acquifere.

Infine, l’allevamento intensivo contribuisce alla deforestazione perché richiede enormi quantità di terra per il pascolo e per la produzione di mangimi. Secondo la Fao, il settore zootecnico è anche responsabile del 30% della perdita globale di biodiversità, causata dalla conversione dei terreni naturali in aree agricole.

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