Quanto soffrono i pesci quando li peschiamo? 24 minuti di agonia per ogni kg 

In molti Paesi i pesci d’allevamento non sono soggetti a regolamentazioni sul benessere durante l’uccisione
16 Giugno 2025
4 minuti di lettura
Pesce Morto Asfissia Canva
Un pesce appena pescato (Canva)

Anche i pesci soffrono intensamente.

Aprendo i social, potreste trovarvi di fronte a diverse campagne di sensibilizzazione sugli animali, dove vengono denunciate le condizioni in cui vengono tenute le bestie, prima di finire sulle nostre tavole. Anche la consapevolezza sull’impatto ambientale dell’allevamento è sempre più comune, tanto che in Europa la carne coltivata è sempre più diffusa e l’Ue ha dato il via libera alla farina di larve intere di Tenebrio molitor, conosciute come larve gialle della farina.

C’è, però, un grande buco nero sulla questione: tutte queste prese di posizione riguardano gli animali terrestri; i pesci non vengono mai presi in considerazione. C’è persino chi, in quanto vegetariano, non tocca mai una fettina di carne, ma riesce a mangiare pesce senza farsi troppi problemi. La prova evidente di come la sofferenza delle specie ittiche non faccia parte della nostra cultura.

Uno studio del Welfare Footprint Institute pubblicato su Scientific Reports può cambiare la nostra percezione sul tema, perché dimostra le atroci sofferenze patite dai pesci, prima di morire per asfissia e finire, ancora una volta, sulle nostre tavole.

La sofferenza dei pesci morti per asfissia

La ricerca spiega che, quando viene pescato e strappato via dal suo habitat naturale, un pesce vive almeno 24 minuti di agonia per ogni chilogrammo di peso. Più il pesce è grande, maggiore sarà la sua sofferenza, prima di morire per asfissia.

Lo studio si è concentrato sulla trota iridea, analizzando l’asfissia in aria, che è il metodo più diffuso dai pescatori. I risultati sono inequivocabili. Questi animali sopportano in media 10 minuti di dolore intenso, con variazioni che oscillano tra 2 e 22 minuti a seconda delle dimensioni del pesce e della temperatura dell’acqua. Un’agonia che si traduce in 24 minuti di sofferenza per ogni chilogrammo di peso corporeo.

I numeri della pesca nel mondo

I numeri dell’industria ittica mondiale sono vertiginosi quanto inquietanti. Ogni anno vengono uccisi fino a 2,2 trilioni di pesci selvatici e 171 miliardi di pesci d’allevamento. Per comprendere l’entità del fenomeno, significa che ogni secondo muoiono circa 70.000 pesci selvatici nel mondo. Una carneficina che avviene nell’indifferenza generale, protetta dall’invisibilità delle acque e dalla percezione ridotta che abbiamo della sofferenza ittica.

L’Europa e l’Italia non fanno eccezione in questo scenario. Nel nostro Paese, l’acquacoltura ha registrato una crescita costante negli ultimi decenni, stabilizzandosi solo di recente. Nel 2016 sono stati trasportati e introdotti in Italia oltre 72 milioni di chilogrammi di pesce vivo, con le trote che rappresentano il 35,5% del totale, seguite da spigole e orate al 14,6%. Le previsioni indicano che entro il 2030 il 60% del pesce consumato a livello mondiale sarà di allevamento.

Il paradosso della sostenibilità ittica

Il recente rapporto Fao “Revisione dello stato delle risorse ittiche marine mondiali 2025” offre un quadro complesso della pesca globale. Mentre il 64,5% degli stock ittici mondiali viene sfruttato entro livelli biologicamente sostenibili, il 35,5% risulta sovrasfruttato a livello globale. Nel Mediterraneo e nel Mar Nero la situazione è particolarmente critica: il 65% del pesce viene pescato in maniera non sostenibile.

Tuttavia, dove esistono regolamentazioni efficaci, i risultati sono incoraggianti. Nel Pacifico nord-orientale il 92,7% degli stock ittici è pescato in modo sostenibile, mentre per il tonno si registra un significativo recupero con l’87% degli stock gestiti sostenibilmente. Manuel Barange, vicedirettore generale della Fao, ha sintetizzato la situazione con una frase lapidaria: “Stiamo impoverendo la popolazione dell’oceano”.

Quando l’acqua diventa una scusa

La ricerca del Welfare Footprint Institute solleva interrogativi profondi sulla nostra percezione del dolore animale. Mentre per mammiferi e uccelli esistono normative specifiche sul benessere durante la macellazione, i pesci rimangono largamente esclusi da queste tutele. In molti Paesi, compresi quelli europei, i pesci d’allevamento non sono soggetti a regolamentazioni sul benessere durante l’uccisione. Il fatto che vivano sotto la superficie del mare rende quasi invisibile il loro dolore.

Dal 1° luglio 2025, in Svizzera sarà obbligatorio indicare sulle etichette dei prodotti di origine animale se, durante l’allevamento, gli animali sono stati sottoposti a pratiche dolorose. Anche in questo caso, i pesci restano sullo sfondo.

Ora le evidenze scientifiche dimostrano che i pesci possiedono strutture neurologiche capaci di processare il dolore e mostrano comportamenti complessi di apprendimento e risposta agli stimoli nocivi.

Tecnologie per ridurre la sofferenza

Lo studio non si limita a documentare il problema, ma propone soluzioni concrete. Lo stordimento elettrico, se implementato correttamente, potrebbe evitare da 60 a 1.200 minuti di dolore da moderato a estremo per ogni dollaro di costi di capitale. Lo stordimento percussivo rappresenta un’altra alternativa promettente, benché di difficile implementazione su scala commerciale.

Paradossalmente, la ricerca rivela che le attività pre-macellazione come il sovraffollamento e il trasporto causano probabilmente una sofferenza cumulativa maggiore rispetto all’uccisione stessa. Un dato che dovrebbe spingere l’industria a ripensare l’intero processo produttivo, non solo il momento finale.

Il futuro della pesca tra crisi generazionale e sostenibilità

A livello comunitario, le difficoltà economiche derivanti dalla crisi del settore auto e dai dazi di Trump hanno relegato in secondo piano le politiche green: per contrastare le difficoltà economiche si chiedono sacrifici alla sostenibilità. I pesci non fanno eccezione.

Il settore ittico italiano affronta contemporaneamente la sfida del benessere animale e una profonda crisi generazionale. Secondo l’analisi di Nisea, il 65% dei pescatori attivi nella piccola pesca italiana ha tra i 40 e i 64 anni, mentre solo il 20% ha meno di 39 anni. A Porto Cesareo, comunità di 90 pescatori custodi di saperi antichi, si registra lo stesso fenomeno di invecchiamento senza ricambio generazionale.

La pandemia ha ulteriormente aggravato la situazione economica del settore. Nonostante la pesca fosse considerata attività strategica e non soggetta a lockdown, la piccola pesca artigianale ha subito una rilevante riduzione dell’attività con conseguente andamento negativo del valore aggiunto e del profitto lordo che spingono ad avere minore attenzione per la sostenibilità e una maggiore preoccupazione per le entrate economiche.

L’inizio di una nuova consapevolezza

La quantificazione scientifica del dolore ittico rappresenta un punto di svolta nella percezione pubblica di questi animali. Come sottolinea Wladimir Alonso, ideatore del Welfare Footprint Framework: “Il metodo fornisce un approccio rigoroso e trasparente basato sull’evidenza per misurare il benessere animale, e permette decisioni informate su dove allocare le risorse per il maggior impatto”.

La strada verso una pesca più etica passa necessariamente attraverso il riconoscimento che anche i pesci, creature apparentemente aliene nel loro elemento acquatico, condividono con noi la capacità di soffrire.

Territorio | Altri articoli