Dieci giorni per tentare il primo trattato globale contro l’inquinamento da plastica. Ne resta solo uno, e i 184 Paesi riuniti sotto l’egida dell’Onu si muovono tra bozze sempre più frammentate e il timore di un accordo “debole”. Il presidente del comitato negoziale, il diplomatico ecuadoriano Luis Vayas Valdivieso, ha definito senza esitazione questa una “crisi globale” e ha invitato le delegazioni ad assumersi le proprie responsabilità.
Ogni anno vengono prodotte oltre 400 milioni di tonnellate di plastica, la metà destinate a un singolo utilizzo, con un sistema di riciclo che si ferma al 9% del totale. Il resto finisce in discarica, negli inceneritori o, peggio, negli oceani.
Non si parte da zero. Cinque round precedenti hanno prodotto testi, bozze e migliaia di parentesi quadre, ma non un accordo. L’ultima tappa, a Busan in Corea del Sud lo scorso dicembre, è finita in stallo per il rifiuto degli Stati produttori di petrolio di accettare limiti alla produzione. A Ginevra, il nodo resta lo stesso: fissare un tetto alla plastica vergine è il punto più divisivo.
Da un lato c’è il “Like-Minded Group” (blocco di Paesi con idee simili) – Arabia Saudita, Kuwait, Russia, Iran, Malesia, con Stati Uniti e India in posizione vicina – che punta a un trattato incentrato sulla gestione dei rifiuti. Dall’altro, il fronte “ambizioso”, formato da Ue, Australia, Canada, Regno Unito, molti Paesi africani e latinoamericani, che vuole misure radicali, dall’eliminazione graduale delle sostanze chimiche più pericolose fino a limiti rigidi sulla produzione.
“È ora di ottenere risultati”, ha scandito la commissaria europea all’Ambiente Jessika Roswall, ricordando che il testo è passato da 22 a 35 pagine e le parentesi sono arrivate a quota 1.500. L’obiettivo fissato nel 2022 era chiudere entro la fine del 2024, ma il margine per riuscirci si riduce ogni ora.
Due blocchi, una frattura netta
Emergono chiaramente due blocchi contrapposti, con posizioni quasi inconciliabili. Il “Like-Minded Group” punta a un approccio che lasci intatta la produzione di plastica, concentrandosi invece su una gestione più efficiente dei rifiuti. È una linea che tutela gli interessi dei grandi produttori di petrolio e gas e che trova sponda anche negli Stati Uniti e in India. Per i membri di questo blocco, il trattato dovrebbe fissare standard di raccolta, smaltimento e riciclo, senza vincoli rigidi sulla quantità prodotta.
Il “gruppo ambizioso” risponde con una visione opposta: intervenire a monte, riducendo la produzione e vietando alcune sostanze chimiche. L’alleanza raccoglie l’Ue, numerosi Stati africani e latinoamericani, Australia, Canada, Svizzera e Regno Unito, oltre a piccoli Stati insulari che denunciano il soffocamento dei loro mari. Per loro, il successo si misura in tagli concreti e verificabili, non in sole regole sulla gestione a valle.
Secondo il ministro danese Magnus Heunicke, le trattative sono “molto difficili” e rischiano di portare a un testo finale “troppo debole” per affrontare la crisi. Gli osservatori indipendenti alzano le critiche: Pamela Miller di Ipen parla di negoziati “sull’orlo del precipizio”, Greenpeace avverte del pericolo di “un cattivo accordo dell’ultimo minuto”, mentre Plastic Free Onlus segnala divergenze profonde su definizioni chiave, inclusione delle microplastiche, meccanismi di finanziamento e obiettivi quantitativi.
A complicare il quadro, la presenza di rappresentanti dell’industria della plastica in alcune delegazioni. Per Silvia Pettinicchio, direttrice globale di Plastic Free Onlus, serve “mettere da parte interessi di parte per il bene collettivo”. Con appena un giorno di lavori rimasto e migliaia di opzioni aperte nel testo, il rischio di un compromesso al ribasso è concreto.
La mappa dei produttori di plastica
Mentre a Ginevra si discute di riduzioni e divieti, un’analisi congiunta di Eunomia e Zero Carbon Analytics fotografa un dato che spiega parte dello stallo: sette Paesi producono due terzi della plastica più comune al mondo. Cina, Stati Uniti e Arabia Saudita guidano la classifica, seguiti da Corea del Sud, India, Giappone e Germania. La sola Cina pesa per il 34% della produzione globale di polietilene, polipropilene, PET e polistirene, polimeri che dominano il mercato e finiscono nei prodotti di largo consumo, dai flaconi ai contenitori alimentari.
Questa concentrazione della produzione si traduce in un potere negoziale asimmetrico. I grandi produttori hanno interessi economici diretti a mantenere aperti i rubinetti della plastica vergine, soprattutto in un contesto in cui la domanda è destinata a crescere. Le proiezioni parlano di una produzione che, senza interventi, quasi triplicherà entro il 2060 rispetto ai livelli del 2019. Le delegazioni industriali ripetono che la plastica è indispensabile per settori come alimentare, sanità ed elettronica e che ridurne la produzione avrebbe effetti collaterali pesanti sull’economia globale.
Il problema, però, va oltre i numeri. La plastica è ormai un inquinante ubiquo: secondo le stime, circa 8 miliardi di tonnellate di rifiuti hanno già invaso il pianeta, sotto forma di macro, micro e nanoparticelle, presenti dalle profondità oceaniche alla catena alimentare umana. Per misurare in maniera indipendente l’impatto di questo inquinante, la rivista The Lancet ha avviato il Lancet Countdown on Health and Plastics, un programma di monitoraggio che punta a fornire dati aggiornati su rischi, costi sanitari e progressi delle politiche pubbliche. Per gli esperti il 75% delle sostanze chimiche presenti nelle materie plastiche non è mai stato testato per verificarne la sicurezza, e gli effetti vanno dalla contaminazione di cibo e acqua a malattie croniche e costi sanitari stimati in oltre 1,5 trilioni di dollari l’anno.
Il prezzo sanitario dell’inquinamento da plastica
Secondo l’iniziativa di The Lancet, l’inquinamento da plastica è un pericolo “grave e crescente” ma ancora “sottovalutato”. Gli impatti si manifestano in ogni fase del ciclo di vita: estrazione di combustibili fossili, produzione industriale, utilizzo, smaltimento. Durante la produzione, vengono rilasciate sostanze chimiche che si accumulano negli ecosistemi; nell’uso quotidiano, particelle e additivi migrano in alimenti e bevande; nello smaltimento, l’incenerimento e la combustione all’aperto – pratica comune nel 57% dei casi nei Paesi a basso e medio reddito – rilasciano inquinanti atmosferici.
Gli effetti sanitari sono documentati: esposizione a interferenti endocrini, aumento del rischio di malattie cardiovascolari, problemi respiratori, effetti neurotossici. I gruppi più vulnerabili sono i neonati e i bambini, esposti fin dalla gestazione. Alcuni studi mostrano che i rifiuti plastici possono creare microhabitat per zanzare e microrganismi patogeni, con ricadute sulla diffusione di malattie come malaria e Dengue e sull’aumento della resistenza antimicrobica.
Il Countdown prevede di pubblicare il primo rapporto completo nel 2026, con indicatori in grado di misurare l’efficacia delle politiche e il reale impatto sulla salute. “È nostro dovere agire”, ha dichiarato il professor Philip Landrigan del Boston College, invitando i negoziatori a trovare “un terreno comune” per una cooperazione internazionale efficace. Ma sul tavolo di Ginevra la dimensione sanitaria rischia di essere sacrificata sui compromessi politici: diverse ong temono che un trattato annacquato non solo non fermerà l’aumento della produzione, ma legittimerà l’idea che basti riciclare di più per affrontare una crisi che invece richiede interventi strutturali e immediati.