Medicanes sempre più frequenti nel Mediterraneo? Cosa sono e cosa c’entrano il riscaldamento climatico e il plancton

Con acque record oltre i 30°C in superficie, il Mare Nostrum alimenta cicloni tropicali “in miniatura” che possono mettere a rischio vita e infrastrutture. E anche il plancton, che ci fornisce gran parte dell'ossigeno che respiriamo, soffre
21 Ottobre 2025
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Medicane Uragano

Uragani nel Mediterraneo? Forse non molti lo sanno, eppure esistono e hanno anche un nome: medicanes, crasi di ‘Mediterranean‘ e ‘Hurricanes‘. Di come nascano e di quali rischi pongano in un Mare Nostrum ormai hot spot climatico, si è parlato in occasione del panel ‘Questa è l’acqua – Oceani’ durante il Festival For The Earth, che si è svolto a Torino dal 16 al 18 ottobre. Tre giorni in cui esperti, comunicatori e scienziati si sono confrontati su cambiamento climatico, salute e biodiversità a partire proprio dall’oro blu, risorsa preziosa e fragile allo stesso tempo.

Ospiti dell’incontro, nella Sala dei Mappamondi dell’Accademia delle Scienze, Gianmaria Sannino, climatologo dell’Enea, che ha spiegato la dinamica e il futuro dei medicanes, e Giorgia Bollati, giornalista e autrice del libro ‘I vagabondi del mare’, che ha raccontato il mondo spesso trascurato del plancton. Due realtà in apparenza lontane, ma entrambe collegate al riscaldamento climatico, ed entrambe con un impatto importante sulla nostra vita. A moderare, Marco Merola, giornalista e direttore divulgazione scientifica e outreach del FOR.

Cosa sono i medicanes?

Come anticipato, i medicanes sono uragani mediterranei: cicloni di piccola scala (tipicamente 100–300 km) che nascono sul Mare Nostrum e che, nelle fasi mature, mostrano caratteristiche simili ai cicloni tropicali: nucleo caldo, convezione profonda avvolta a spirale e talvolta un “occhio” ben definito.

Non sono frequenti (in media 1–2 all’anno) e hanno durata breve (1–3 giorni). Ma possono avere conseguenze devastanti, sia sulle persone che sulle infrastrutture, come ha ricordato Sannino: un esempio – tragico – è stato nel 2023 il crollo della diga a Derna, sulle coste libiche. Causato proprio da un medicane, il collasso dell’argine provocò la morte di 5mila persone.

Un Mediterraneo sempre più caldo

Il punto di partenza di tutto è che “il Mediterraneo non è stato mai così caldo: in superficie abbiamo raggiunto temperature mai registrate negli ultimi 150 anni”, ovvero “abbiamo superato in estate per lunghi periodi i 30 gradi”, ha spiegato il climatologo.

“Questo significa che anche i mari cominciano a reagire in maniera importante al cambiamento climatico che sta investendo tutto il pianeta”, con l’aggravante che, essendo il Mediterraneo un piccolo bacino quasi chiuso, “tutto quello che si vede a livello globale qui viene amplificato”.

In sostanza, il Mare Nostrum, allo stesso modo di Polo Nord e Polo Sud, è un ‘hot spot’ climatico, cioè un’area in cui l’impatto del riscaldamento globale si vede prima e con effetti più importanti. Già adesso, ha specificato lo scienziato, “nel Mediterraneo il cambiamento è 20% più alto della media di quello che sta accadendo sul nostro pianeta, e questa particolarità ce la porteremo in futuro”.

Ma perché una temperatura così alta è un problema? Sannino lo ha spiegato: “Fondamentalmente il calore è una forma di energia; quindi, un mare più caldo ha più energia al suo interno. Questa energia viene trasferita all’atmosfera, portando alcuni fenomeni meteorologici che si sono sempre verificati e si verificheranno in futuro, come i medicanes, ad avere a disposizione molta più energia e a spostarsi un po’ più lentamente” per via dell’umidità, che funge da carburante.

“Questo significa che i medicanes possono rimanere anche a ‘passeggiare’ nel Mediterraneo per molto più tempo”, ha continuato l’esperto. Il caso di Derna è emblematico anche di tale dinamica: dopo essersi formato nel Mediterraneo orientale, il medicane “si era diretto verso la Grecia facendo i primi danni, dopodiché si era rinvigorito e guidato dai venti verso sud ha colpito la città libica”.

Oltre alla perdita di tante vite umane, l’episodio fa capire che “le nostre infrastrutture, comprese quelle critiche, dalle dighe alle autostrade alle reti ferroviarie, in realtà sono state progettate per un clima che non è più quello, perché quando si progetta qualche cosa lo si fa sulla base anche di dati climatici, che sono quelli degli ultimi 30-40 anni”.

Ecco perché, ha sottolineato lo scienziato, occorre “cominciare a cambiare il paradigma: proprio perché il clima sta cambiando così rapidamente, chi si occupa di infrastrutture, soprattutto critiche, deve utilizzare scenari climatici futuri e non quelli passati, perché quelli passati non sono adeguati”.

Notti tropicali in aumento

Ma un Mediterraneo più caldo lo sentiamo anche nel nostro quotidiano: “Già adesso abbiamo 15 notti tropicali in più rispetto a quello che potevamo avere solo 30-40 anni fa”, il che significa che “quasi mezzo mese in più durante l’estate cominciamo a vivere delle situazioni di difficoltà, e queste notti tropicali sono proprio quelle che andranno a aumentare in futuro”.

Quanto lo faranno, “fondamentalmente dipende da noi. Se rimaniamo sotto ai 2 gradi, potremmo rimanere a delle situazioni simili a quelle attuali; altrimenti, la situazione può diventare molto più complicata”, ha avvisato Sannino, ricordando che “ci siamo già avvicinati drammaticamente al grado e mezzo in più rispetto al periodo pre-industriale, dunque abbiamo un buffer molto limitato”. Purtroppo, ha notato lo scienziato, non sembra esserci “un’inversione di tendenza nelle emissioni di anidride carbonica, che sappiamo essere il vero motore del cambiamento climatico“.

Anzi, secondo alcuni scenari potremmo arrivare a livello globale a superare i 4° C. Questo significa che “dalle parti nostre possiamo anche guadagnare 5-6° C in più rispetto al periodo pre-industriale, con tutto quello che ne deriva in termini di impatti: appunto le notti tropicali, ma anche alluvioni e temporali estremi, chicchi di grandine grandi quanto una palla da tennis” e così via.

C’è un nodo centrale qui, sottolineato durante il panel: anche un’infinitesima parte di grado produce comunque dei risultati nell’ecosistema. “Anche uno o due decimi di grado fanno paura a chi studia il clima, perché sanno che associato a quel decimo di grado c’è una quantità immensa di energia che immettiamo nel sistema climatico”, e che quest’ultimo in qualche modo reagirà. Sannino ha dato un’idea di quanta energia abbiamo già riversato nell’atmosfera – “l’elemento più sensibile di tutto il sistema climatico” – negli ultimi 250 anni: una quantità “pari all’esplosione di cinque bombe atomiche come quella di Hiroshima ogni secondo per un centinaio d’anni”. E “un’atmosfera dinamicamente differente si traduce poi in un meteo che non riconosciamo più”.

La concentrazione di anidride carbonica sta aumentando

Quindi sappiamo che il ‘colpevole’ del riscaldamento climatico è l’anidride carbonica. E sappiamo anche che la sua concentrazione nell’atmosfera sta aumentando. “Abbiamo superato le 420 parti per milione. Significa che, se io prendo un cubetto di aria e misuro le molecole di carbonica, ne avrò 420 su 1 milione. Nonostante siano pochissime, nel 1850 erano 180 parti per milioni, quindi le abbiamo più che raddoppiate”, ha spiegato il climatologo.

Questo si ripercuote sui mari, che “sono in realtà i nostri polmoni” e assorbono la CO2, ha continuato Sannino, che ha anche precisato il fatto che se il pianeta non si è riscaldato ancora di più lo dobbiamo proprio agli oceani, che “hanno assorbito il 93% di tutto quel calore in eccesso che abbiamo creato a causa dell’anidride carbonica che abbiamo immesso in atmosfera”. Ma non senza pagare un prezzo salato: quello di assorbire calore, diventare più caldi e più acidi.

A tal proposito a fine settembre è arrivata la notizia che abbiamo superato il settimo limite planetario, quello legato proprio all’acidificazione dei mari, arrivata oltre il livello di guardia.

È anche grazie al plancton se la situazione non è peggiore

Se dobbiamo ringraziare gli oceani per non essere in una situazione peggiore di quella attuale, nello specifico il merito va (anche) a un plancton, il Prochlorococco, un’alga cellulare, una delle prime che si siano formate. Bollati ha raccontato la sua importanza: “È tra le responsabili del Great Oxygenation Event, che è stato sostanzialmente il momento in cui l’atmosfera è diventata quella che noi oggi conosciamo”. In pratica, il Prochlorococco “è responsabile dell’ossigenazione dell’atmosfera”, perché “assorbe buona parte della CO2 e produce circa metà dell’ossigeno che noi respiriamo”.

Ma in oceani e mari sempre più ricchi di anidride carbonica, sempre più acidificati e sempre più caldi, il Prochlorococco non ha vita facile, alla pari dei pesci, mentre le meduse e le gelatine fioriscono. “Per noi è un danno economico e un danno ecologico, però purtroppo queste sono le condizioni del mare che noi abbiamo creato”, ha sottolineato Bollati. “(Il riscaldamento globale, ndr), oltre ad aumentare il rischio di cicloni, di medicanes e di piogge estreme, anche da un punto di vista della biodiversità crea problemi che poi alla fine si ripercuotono sulla nostra economia, sulla nostra alimentazione, sulla nostra salute”. Perché tutto è collegato con tutto. Anche l’essere umano.

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