Beachwear urbano, quando il costume da bagno diventa un problema

Cresce il fronte dei comuni che impongono regole contro il costume fuori dalla spiaggia
29 Luglio 2025
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Costume Bagno Vietato Citta

A Les Sables d’Olonne, località balneare sulla costa atlantica francese, camminare in costume fuori dalla spiaggia ora costa fino a 150 euro di multa. È quanto stabilito da un’ordinanza del sindaco Yannick Moreau, che ha affidato a un post su Facebook l’annuncio di un divieto tanto banale quanto controverso: basta uomini a torso nudo e turisti in bikini nei supermercati, nei mercati e per le strade del centro.

“È una questione di rispetto per i residenti”, scrive il sindaco. Ma non solo: è anche una questione di igiene e di ordine. “Nei nostri negozi, nei nostri mercati e nelle nostre strade, ci si veste.” In altri termini: il beachwear, fuori dalla spiaggia, è considerato un problema. Di decoro, ma anche di tenuta urbana.

Il provvedimento non è isolato. In Francia, città come Arcachon e La Grande-Motte hanno adottato regole simili. In Spagna, Malaga ha messo cartelloni per ricordare ai turisti che vestirsi non è opzionale, è obbligatorio. Anche in Italia il tema esiste, anche se manca una linea chiara. Si oscilla tra tolleranza e irritazione, tra folklore e fastidio.

La domanda è: cosa sta diventando il beachwear urbano? Una libertà? Una scocciatura? Un segnale di degrado?

Il fronte francese contro il costume urbano

L’ordinanza anti-costume a Les Sables d’Olonne non è solo una scelta amministrativa. È un segnale politico preciso: delimitare la spiaggia, riconfigurare lo spazio urbano, imporre regole dove da anni regna la tolleranza. A scatenare il giro di vite è stata la percezione crescente, da parte dei residenti, che la stagione turistica abbia trasformato la città in una “zona franca” in cui le regole della convivenza sono sospese.

La multa è solo l’ultimo passaggio. Prima c’è stato un lungo crescendo di malumori, pressioni da parte dei commercianti, lamentele sui social e una progressiva esasperazione del tessuto locale. Moreau ha cavalcato questo disagio e ne ha fatto una bandiera. Il risultato? Un provvedimento molto netto, accompagnato da una comunicazione visiva efficace: manifesti cittadini con lo slogan “Il rispetto non va in vacanza”.

Il consenso è arrivato quasi subito. Nei commenti al post del sindaco, il tono è inequivocabile. “Grazie, era ora”, “Finalmente qualcuno che interviene”, “Non se ne poteva più”. L’approvazione è trasversale: residenti, negozianti, operatori locali. Non si tratta di un caso isolato.

Arcachon e La Grande-Motte, due località balneari con un’identità turistica consolidata, hanno introdotto multe identiche (150 euro) per chi passeggia in città in costume da bagno. Nessuna retorica moralista, nessun appello ai “valori della famiglia”. Semplicemente, un messaggio: la città non è una spiaggia allargata.

La stretta francese non si limita alla sfera del decoro. Interviene su una linea di faglia reale: quella tra spazi ad alta frequentazione turistica e spazi pensati per la residenza. In ballo c’è la gestione del flusso umano, la qualità della vita urbana e la riconoscibilità dello spazio civico. In questo quadro, il beachwear diventa simbolo di una frizione sociale, più che di una moda fuori posto.

La Costa del Sol fissa i limiti della convivenza urbana

A Malaga, il problema è stato affrontato con un mix di comunicazione e sanzioni. Le multe per chi gira in costume o in intimo possono arrivare fino a 750 euro. Ma il punto interessante non è l’importo, è il metodo: cartelloni affissi in centro, messaggi in inglese e spagnolo, slogan secchi ed essenziali come “Dress completely” (“Vestirsi completamente”) o “Always wear an upper garment” (“Indossare sempre un indumento superiore”).

Il target sono i turisti britannici, che sbarcano sulla Costa del Sol con voli low-cost, in un approccio “all inclusive” anche alla città. Il comune ha risposto con una campagna in quattro punti: vestirsi, non urlare, non usare i marciapiedi per i monopattini, non sporcare. È un decalogo urbano in piena regola.

Questa linea educativa ha un obiettivo preciso: difendere la città come spazio di convivenza, non come estensione della spiaggia o del resort. La reazione degli abitanti è stata favorevole, anche perché la campagna arriva dopo anni di proteste contro il turismo incontrollato.

Malaga è solo uno dei nodi della questione spagnola. A Barcellona, Ibiza, le Canarie e Maiorca si moltiplicano le proteste contro l’overtourism. La risposta passa anche per il controllo del comportamento individuale. Il beachwear è solo un aspetto, ma rappresenta il volto visibile del problema. La logica non è quella del divieto per principio, ma della regolazione.

L’Italia e il paradosso del beachwear

In Italia, il problema esiste ma resta sommerso. Le ordinanze anti-beachwear sono episodiche e scollegate tra loro. A Capri vige un divieto di circolare a torso nudo o in costume, con multe fino a 500 euro. A Sorrento si è tentato un approccio simile. A Sanremo, Venezia e in alcune località della Sardegna esistono divieti stagionali. Ma mancano due elementi chiave: una regia nazionale e una coerenza applicativa.

Nella maggior parte dei casi, tutto viene lasciato al buon senso – dei cittadini e delle forze dell’ordine. Con esiti prevedibili: turisti che entrano in pizzerie o tabaccherie in bikini, residenti infastiditi, commercianti in imbarazzo e vigili che possono intervenire solo se esiste un’ordinanza ad hoc.

Il nodo, però, non è solo normativo. È culturale. L’Italia ha un rapporto ambiguo con il corpo e con l’informalità estiva. Il beachwear è considerato parte dell’identità turistica, quasi folkloristica. Ma questa elasticità rischia di esplodere quando i numeri del turismo diventano ingestibili e i centri urbani si congestionano.

Le città costiere, da Rimini a Taormina, da Gallipoli a Jesolo, vivono un doppio standard: tolleranza nelle vie più turistiche, irritazione nei quartieri residenziali. Senza una cornice nazionale, ogni sindaco agisce (o non agisce) in autonomia. E ogni estate si ricomincia da capo.

In questo vuoto normativo, il beachwear urbano si trasforma in un problema mal gestito. Non perché sia “indecente”, ma perché mette in crisi la distinzione tra spazio turistico e spazio civico.

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