Greenpeace rischia la bancarotta: 660 milioni di dollari per le proteste contro Dakota Access

Una condanna che mette l’associazione ambientalista in una posizione difficile, sollevando il tema delle Slapp e dei diritti civili nelle manifestazioni
21 Marzo 2025
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Tribunale Usa

In un clima di accadimenti giudiziari e attivismo diffuso, il diritto di protesta e la responsabilità legale si intrecciano in maniera inedita: una giuria del North Dakota ha condannato Greenpeace – nelle sue declinazioni Usa, Fund Inc. e International – al pagamento complessivo di oltre 660 milioni di dollari, in relazione alle proteste che, nel 2016 e 2017, hanno interessato il controverso oleodotto Dakota Access.

Le autorità giudiziarie statunitensi, esaminando le accuse sollevate da Energy Transfer e dalla controllata Dakota Access, hanno rilevato una serie di presunte responsabilità, tra cui diffamazione, violazione di domicilio e cospirazione civile, in seguito a manifestazioni che hanno avuto luogo nei pressi della riserva della tribù Standing Rock. Tali eventi, originati da preoccupazioni circa la possibile contaminazione delle risorse idriche e il rispetto dei diritti delle popolazioni indigene, hanno mobilitato numerosi attivisti e osservatori a livello globale.

Il verdetto e il quadro delle accuse

La decisione della giuria ha posto al centro di un dibattito le modalità con cui si è sviluppata la protesta contro il Dakota Access Pipeline. Greenpeace è accusata di aver promosso e facilitato manifestazioni che, secondo i legali dell’azienda, hanno causato disagi e danni economici considerevoli. Le accuse specifiche riguardano la presunta organizzazione e coordinamento di azioni dimostrative, il pagamento di esponenti esterni per sostenere le proteste e la diffusione di informazioni ritenute fuorvianti sul progetto.

I rappresentanti di Energy Transfer sostengono che tali condotte abbiano violato il diritto di proprietà e abbiano arrecato danni diretti all’attività commerciale dell’oleodotto, il quale trasporta una quota significativa della produzione petrolifera degli Stati Uniti. Dall’altra parte, gli avvocati di Greenpeace hanno contestato fermamente queste tesi, affermando che non esiste alcuna evidenza concreta di una diretta orchestrazione centralizzata delle manifestazioni da parte dell’organizzazione ambientalista. Secondo la difesa, le azioni dei singoli dipendenti o collaboratori non possono essere assimilate a una strategia coordinata, e il ruolo di Greenpeace si limita a esprimere un dissenso in tema ambientale, nel rispetto del diritto alla libertà di espressione. La giuria, dopo aver esaminato le prove e le testimonianze, ha ritenuto che vi fossero elementi sufficienti per attribuire la responsabilità a Greenpeace.

Cosa sono le cause Slapp

La decisione è inserita in un contesto giuridico più ampio, in cui le cause di natura simile, note come Slapp (Strategic Lawsuit Against Public Participation), vengono utilizzate per arginare il dissenso e sollevare questioni relative all’equilibrio tra diritto di protesta e tutela degli interessi economici. Se da un lato la sentenza evidenzia la volontà del sistema giudiziario di far rispettare la legge in materia di responsabilità civile, dall’altro fa sorgere interrogativi circa l’eventualità che cause di questo tipo possano essere impiegate per limitare la partecipazione civile e la libertà di espressione in contesti di mobilitazione pubblica.

Energy Transfer non è il solo attore che ha adottato questo approccio: altre grandi compagnie del settore, hanno intrapreso simili iniziative nei confronti di organizzazioni ambientaliste in differenti giurisdizioni. Il meccanismo delle Slapp mira a utilizzare il sistema giudiziario come strumento per ottenere risarcimenti elevati e, allo stesso tempo, a creare un deterrente economico contro future proteste o espressioni di dissenso.

Greenpeace a rischio bancarotta

La sentenza, che impone a Greenpeace una sanzione economica di oltre 660 milioni di dollari, suddivisa in circa 404 milioni per Greenpeace Usa e ulteriori importi per Greenpeace Fund Inc. e Greenpeace International, ha immediatamente alimentato il dibattito sul rischio di bancarotta per l’organizzazione ambientalista: il verdetto rappresenta una sfida non solo sul piano legale, ma anche su quello finanziario. I dirigenti di Greenpeace hanno dichiarato l’intenzione di presentare ricorso, evidenziando come la decisione, pur riconoscendo il diritto alla tutela dei danni, presenti elementi di contestazione in merito alla valutazione delle prove e alla qualificazione degli eventi.

Dal punto di vista economico, l’impatto di una sentenza di tale portata comporta notevoli sfide: la necessità di destinare risorse ingenti alla difesa legale e il potenziale rischio di dover affrontare una crisi di liquidità che potrebbe compromettere i progetti in corso e quelli futuri. Gli analisti osservano che, seppur la decisione sia stata emessa in un contesto specifico, essa potrebbe avere effetti a catena anche su altre organizzazioni impegnate nella partecipazione civile, suggerendo una maggiore cautela nell’utilizzo delle forme di protesta che possano essere interpretate come organizzate in maniera centralizzata.

In un quadro globale in cui la mobilitazione per il clima e la tutela dell’ambiente continuano a rappresentare temi di grande attualità, la vicenda solleva interrogativi rilevanti sul ruolo dei tribunali nel definire i confini tra espressione politica e responsabilità civile, e sul possibile impatto di decisioni di questo tipo sulla capacità delle organizzazioni non profit di operare senza timore di ripercussioni economiche eccessive.

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