Coming out, 1 talento Lgbt+ su 3 lascia il lavoro

Le persone non eterosessuali guadagnano meno dei colleghi eterosessuali
10 Luglio 2025
2 minuti di lettura
Lgbt Lavoro Canva
Persona lgbt+ al lavoro

3 talenti Lgbt+ su 10 continuano a temere il coming out al punto da abbandonare il posto di lavoro. È quanto emerge dalle ricerche del Williams Institute dell’Ucla di Los Angeles, che getta luce su un fenomeno silenzioso ma devastante sia per il tessuto produttivo contemporaneo che, soprattutto, per i diritti civili.

Secondo le ricerche dell’istituto, il 46% dei lavoratori Lgbt+ negli Stati Uniti non si sente libero di rivelare la propria identità sessuale sul posto di lavoro, principalmente per paura di discriminazioni. Una percentuale che sale drammaticamente quando si considera che il 33% ha dichiarato di aver lasciato il lavoro a causa di trattamenti ingiusti legati alla propria identità.

Il timore non è infondato.

Lgbt+ discriminati al lavoro: i dati

Quasi la metà dei lavoratori Lgbt+ (47%) ha riferito di aver subito discriminazioni o molestie sul posto di lavoro, mentre uno studio di Harvard Business Review ha rivelato che i candidati Lgbt+ che includevano nel curriculum segnali della propria identità avevano il 30% di probabilità in meno di ricevere una chiamata rispetto ai colleghi non Lgbt+.

E anche quando si ottiene un posto di lavoro, non mancano i problemi: il 39% evita o riduce le interazioni con i colleghi recitando quotidianamente un ruolo che non gli appartiene. Una performance estenuante che si ripete in ogni conversazione informale, in ogni domanda sul cosa fare i weekend, in ogni riferimento alla vita privata.

Gender pay gap: come incide sui lavoratori Lgbt+

Anche le conseguenze economiche sono tangibili e seguono la scia della discriminazione salariale subita dalle donne rispetto agli uomini. Le persone Lgbt+ guadagnano in media 90 centesimi per ogni dollaro guadagnato dal lavoratore medio americano, un gap che si amplia ulteriormente per le persone transgender e per i membri della comunità Lgbt+ appartenenti a minoranze etniche.

Il soffitto di cristallo diventa ancora più spesso quando si tratta di posizioni dirigenziali. Molti professionisti Lgbt+ riferiscono di sentirsi bloccati in ruoli di medio livello, raramente considerati per posizioni di leadership, specialmente se non si conformano alle norme tradizionali di genere o alle dinamiche politiche dell’ufficio.

Fuga dei cervelli Lgbt+

La presidenza di Donald Trump, per cui la “follia trasngender” è un grave problema sociale, ha acuito la discriminazione per le persone Lgbt+ negli Usa, che non vedono un futuro roseo all’orizzonte.

In questo contesto, molti di loro stanno migrando verso l’economia alternativa/digitale dove possono lavorare da freelance senza subire discriminazioni. Il meccanismo rappresenta una perdita netta per le aziende tradizionali, che vedono sfuggire talenti preziosi non per mancanza di competenze, ma per incapacità di creare ambienti di lavoro veramente inclusivi.

L’importanza di sentirsi libero al lavoro

Il paradosso è evidente: nonostante i milioni investiti in programmi di diversità e inclusione (Dei), solo il 17% dei lavoratori LGBT+ si sente completamente aperto riguardo alla propria identità sul lavoro. Le politiche sulla carta non bastano se non si traducono in cultura aziendale vissuta. Ancor meno adesso che molte aziende americane hanno chiuso i propri programmi Dei per timori di ripercussioni normative da parte dell’amministrazione Trump.

Regressione americana a parte, la sfida non è solo eliminare la discriminazione esplicita, ormai illegale nella maggior parte dei Paesi occidentali, ma affrontare quella sottile, fatta di sguardi che cambiano durante i colloqui, di umore che cambia quando si menziona il partner dello stesso sesso, di battute che feriscono ma vengono fatte passare per innocue.

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