Parità di retribuzione tra uomini e donne. Un principio sacrosanto, talmente ovvio da sembrare quasi superfluo da ribadire. Eppure, la realtà si discosta, e di parecchio, dalla teoria. In Europa, nel 2020, le donne guadagnavano in media il 13% in meno rispetto agli uomini per la stessa ora di lavoro. Un gap che non si ferma al presente: il suo effetto domino si prolunga fino alla pensione, portando le donne a percepire circa il 30% in meno rispetto ai colleghi maschi. A peggiorare il quadro, la pandemia di Covid-19 ha scaricato sulle donne il peso maggiore della crisi economica, aumentando ulteriormente il divario.
Ma l’Unione Europea ha deciso di prendere il toro per le corna: la Direttiva (Ue) 2023/970, adottata il 10 maggio 2023, non si limita a ribadire un diritto, bensì lo rende applicabile, con un meccanismo di trasparenza retributiva che obbligherà le aziende a scoprire le carte.
Cosa cambia per le aziende?
Se la discriminazione retributiva è un problema tanto diffuso quanto difficile da individuare, la nuova direttiva impone una rivoluzione: le imprese dovranno essere chiare sin dall’inizio. A partire dall’annuncio di lavoro, le aziende saranno obbligate a fornire informazioni sulla retribuzione iniziale o sulla fascia salariale prevista, evitando che il primo squilibrio retributivo nasca già in fase di selezione. E c’è di più: ai datori di lavoro sarà vietato chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite in precedenti esperienze professionali, impedendo così che le disparità si trascinino di contratto in contratto.
Una volta assunto, ogni lavoratore e lavoratrice avrà il diritto di conoscere i livelli retributivi medi, suddivisi per sesso, delle categorie professionali equivalenti alla propria. Inoltre, i criteri di progressione salariale e carriera dovranno essere basati su parametri oggettivi e neutrali dal punto di vista del genere. Per le aziende con oltre 250 dipendenti scatterà l’obbligo di pubblicare annualmente il divario retributivo di genere al loro interno. Quelle con un numero di dipendenti compreso tra 100 e 249 dovranno farlo ogni tre anni. E se emergerà una disparità superiore al 5% che non sia giustificata da fattori oggettivi, l’azienda dovrà correre ai ripari, effettuando una valutazione congiunta delle retribuzioni insieme ai rappresentanti dei lavoratori.
Più tutele per i lavoratori
La Direttiva UE non si limita a rendere il sistema più trasparente, ma introduce anche strumenti concreti di tutela per chi subisce discriminazioni retributive. Le vittime potranno ottenere un risarcimento che comprenda il recupero completo delle retribuzioni arretrate, eventuali bonus o pagamenti in natura.
Ma la vera svolta è un’altra: fino ad oggi, chi denunciava una discriminazione salariale doveva dimostrare di essere stato penalizzato rispetto a un collega uomo. Con la nuova normativa, l’onere della prova si ribalta. Saranno i datori di lavoro a dover dimostrare di aver rispettato le regole sulla parità retributiva. E per chi non rispetta la normativa? Sono previste sanzioni economiche significative, con ammende proporzionate alla gravità della violazione, pensate per essere realmente dissuasive.
Un altro aspetto rivoluzionario della Direttiva (UE) 2023/970 è l’introduzione del concetto di discriminazione intersezionale. Per la prima volta, l’Ue riconosce che il divario retributivo di genere non è una questione monolitica, ma si intreccia con altre forme di disuguaglianza, come l’etnia, la disabilità o l’orientamento sessuale. In pratica, una donna appartenente a una minoranza etnica o con disabilità potrebbe subire una penalizzazione salariale ancora maggiore rispetto a una donna appartenente al gruppo dominante. La direttiva impone quindi un approccio più inclusivo e articolato nella valutazione delle disparità retributive.
Il tempo stringe
Gli Stati membri dell’Ue hanno tempo fino a giugno 2026 per recepire la Direttiva 2023/970 nel proprio ordinamento nazionale. Ma l’Italia ha bisogno di muoversi in fretta. Il divario salariale nel nostro Paese non è solo una questione economica, ma è il risultato di un percorso professionale ad ostacoli per le donne, che inizia con contratti più precari e meno retribuiti, prosegue con carriere meno lineari e sbocchi dirigenziali limitati (solo nel 16.3% delle istituzioni pubbliche le donne occupano ruoli apicali).
L’attuazione della direttiva in Italia richiederà un profondo cambiamento culturale, oltre che normativo. Le aziende dovranno adottare nuovi strumenti di misurazione della parità retributiva e garantire un accesso equo a opportunità di carriera. Ma soprattutto, sarà fondamentale creare un clima in cui la trasparenza retributiva diventi la norma e non l’eccezione.