Il 30 agosto, il Consiglio dei ministri ha approvando il decreto legislativo di recepimento della Csrd. La direttiva europea sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale entra dunque ufficialmente nel panorama normativo italiano ampliando gli obblighi di reporting non finanziario a un numero maggiore di imprese, comprese le piccole e medie imprese, con l’eccezione delle microimprese.
Cosa prevede la direttiva Csrd
La Corporate Sustainability Reporting Directive è una direttiva europea volta a migliorare e ampliare la rendicontazione della sostenibilità da parte delle imprese. L’obiettivo principale è quello di aumentare la trasparenza delle informazioni non finanziarie, includendo dati ambientali, sociali e di governance (Esg).
La Csrd sostituisce la precedente direttiva sulla rendicontazione non finanziaria (Nfrd), ampliando la platea delle aziende obbligate a fornire queste informazioni e rafforzando i requisiti di trasparenza. Centrale nella direttiva è il concetto di “doppia materialità”, secondo il quale le aziende devono rendicontare sia l’impatto delle questioni di sostenibilità sulle loro attività, sia il loro impatto sulla società e sull’ambiente. Inoltre, la Csrd prevede che le informazioni di sostenibilità siano soggette a revisione e audit da parte di soggetti indipendenti per aumentare l’affidabilità dei dati forniti.
Le novità introdotte dal decreto di recepimento della Csrd
Il decreto legislativo approvato introduce importanti modifiche rispetto al testo iniziale proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze lo scorso febbraio. Tra le principali novità:
• Ridefinizione dei parametri per identificare le Pmi quotate, ampliando la platea di aziende soggette alla nuova normativa. In particolare, il numero medio di dipendenti richiesto è stato abbassato a un minimo di 11 e un massimo di 250, rispetto al precedente intervallo di 50-250. Gli altri criteri rimangono patrimonio compreso tra 450 mila euro e 25 milioni di euro, e ricavi netti delle vendite e delle prestazioni tra 900 mila euro e 50 milioni di euro;
• Introduzione di un nuovo regime sanzionatorio per le attività di revisione legate alla sostenibilità. Nei primi due anni dall’entrata in vigore del decreto, le sanzioni pecuniarie non potranno superare i 125 mila euro per le società di revisione e i 50 mila euro per i revisori della sostenibilità. La Consob avrà il compito di monitorare le violazioni, tenendo conto delle informazioni comunicate da società appartenenti alla catena del valore ma non direttamente controllate dall’azienda.
Date di applicazione del decreto
Il decreto di recepimento della Csrd stabilisce un calendario preciso per l’implementazione delle nuove norme:
• 1° gennaio 2024 (con pubblicazione dei bilanci non finanziari nel 2025): coinvolgimento delle aziende già soggette agli obblighi della Nfrd;
• 1° gennaio 2025 (con pubblicazione nel 2026): applicazione alle altre grandi imprese;
• 1° gennaio 2026 (con pubblicazione nel 2027): adeguamento per le Pmi quotate, gli enti creditizi piccoli e non complessi, e le compagnie di assicurazione e riassicurazione captive;
• 1° gennaio 2028 (con pubblicazione nel 2029): applicazione alle filiali e succursali di società madri residenti al di fuori dell’Ue che hanno generato ricavi netti superiori a 150 milioni di euro negli ultimi due esercizi consecutivi.
Giova ricordare che quando si tratta di recepire una direttiva europea, l’Ue obbliga gli Stati membri sul “cosa” raggiungere, ma non sul “come” farlo. Questo margine consente di adattare le disposizioni della direttiva alle specificità nazionali, purché gli obiettivi fissati dalla direttiva siano raggiunti.
A differenza delle direttive, invece, i regolamenti Ue hanno effetti diretto in tutti gli Stati membri non appena entrano in vigore, senza bisogno di essere recepito attraverso leggi nazionali. Il regolamento viene preferito quando si vuole garantire l’uniformità di quelle norme tra i Ventisette.
Cittadini sempre più attenti alla trasparenza
Considerata dagli scettici un ostacolo alla produttività, in realtà, la Csrd non è un capriccio della politica: l’obiettivo è fornire non solo alle istituzioni, ma anche agli investitori, ai consumatori e ad altre parti interessate una visione più completa e accurata dell’impatto delle aziende sulla società e sull’ambiente.
Investitori e consumatori, infatti, sono sempre più attenti all’impegno Esg e alla trasparenza delle imprese. I dati parlano chiaro. La ricerca dell’Osservatorio Deloitte “Il cittadino consapevole: il valore del trust nelle scelte di consumo sostenibile” dimostra che 9 cittadini su 10 vogliono ridurre la propria impronta ecologica, e più di 9 consumatori su 10 apprezzano la trasparenza delle aziende riguardo alle strategie di sostenibilità. Fin qui, niente di strano, considerando che queste preferenze non richiedono che il consumatore faccia un vero e proprio sacrificio. Poi però le cose si fanno più interessanti: 6 consumatori italiani su 10 (il 59%) interrompono o limitano i propri acquisti a causa del greenwashing.
Gli italiani fiutano il greenwashing attraverso diverse pratiche:
- omissione di informazioni rilevanti sulle caratteristiche sostenibili del prodotto o servizio (30% dei casi);
- enfatizzazione di una singola e non cruciale caratteristica sostenibile (26%);
- uso di un linguaggio approssimativo nella descrizione del prodotto o servizio (24%);
- impiego di termini che suggeriscono l’esistenza di una certificazione inesistente (24%).
I settori maggiormente esposti al greenwashing sono quelli dei beni di consumo, con il comparto alimentare in testa (29%), seguito dal settore moda (15%). La maggior parte dei casi di greenwashing viene identificata attraverso ricerche online (35%) o sui social media (26%). Altri canali di identificazione includono il parere di esperti (24%), il supporto di Ong (21%) e associazioni di categoria (20%), e i media tradizionali (20%).
Il 78% degli intervistati esprime maggiore fiducia verso le aziende che condividono pubblicamente i propri obiettivi Esg.
Il green hushing
Le aziende percepiscono fortemente l’attenzione dei privati per le tematiche Esg e il loro ripudio per le pratiche di greenwashing. A volte, così fortemente da innescare il fenomeno del green hushing, che consiste nel non comunicare le proprie iniziative e i propri obiettivi di sostenibilità temendo di essere accusati di greenwashing perché le azioni non sono sufficienti o coerenti con il settore di appartenenza. Il green hushing può anche derivare dall’incertezza sull’efficacia e sulla misurabilità delle proprie politiche ambientali; da una scarsa importanza attribuita alla sostenibilità o dalla volontà di mantenere un vantaggio competitivo sui concorrenti, evitando di rivelare le proprie strategie e i propri risultati.