Le big tech emettono il 662% in più della CO2 dichiarata

4 Dicembre 2024
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Big Data

Le big tech – Google, Microsoft, Meta, Apple e Amazon – emettono molta più CO2 di quella dichiarata ufficialmente. Secondo un’inchiesta del The Guardian le emissioni reali sono il 662% rispetto a quelle dichiarate e, se considerate insieme, collocherebbero queste aziende al 33° posto nella classifica dei Paesi più inquinanti al mondo, superando l’Algeria e avvicinandosi alle Filippine.

L’impatto dell’Ai sui consumi energetici

L’Agenzia Internazionale per l’Energia ha affermato che i data center rappresentavano già l’ 1% – 1,5% del consumo globale di elettricità nel 2022, e questo prima che iniziasse il boom dell’Ai con il rilascio di ChatGPT alla fine di quell’anno. Uno dei fattori principali dell’impennata registrata negli ultimi mesi è proprio il crescente utilizzo dell’Intelligenza artificiale perché le applicazione di Ai richiedono una quantità di energia nettamente superiore rispetto alle operazioni tradizionali basate su cloud.

Ad esempio, una singola query su ChatGPT consuma quasi dieci volte l’elettricità di una ricerca su Google, come evidenziato da Goldman Sachs. Secondo stime di Morgan Stanley, la domanda energetica dei data center crescerà del 160% entro il 2030, portando le emissioni globali del settore a 2,5 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, più delle attuali emissioni dell’India.

Non a caso, dopo Google, anche Amazon e Microsoft hanno fatto passi importanti verso l’adozione dei mini reattori nucleari. Gli Smr (Small Modular Reactors) sono considerati una delle soluzioni più promettenti per garantire energia pulita su larga scala e affrontare le crescenti necessità delle infrastrutture digitali, come il cloud computing e l’intelligenza artificiale. Questi sistemi permettono alle aziende di avere energia stabile senza dipendere da fonti tradizionali, come il gas naturale, soggette a volatilità di prezzo e instabilità geopolitiche.

Le discrepanze tra emissioni reali e dichiarate

Molte big tech dichiarano una produzione “pulita” acquistando certificati di energia rinnovabile, che non riducono effettivamente le emissioni ma permettono alle aziende di registrare energia fossile come “rinnovabile”. L’inchiesta del Guardian spiega che se, invece, si considerano le emissioni basandosi sulla posizione fisica dei data center, senza includere i certificati, i valori sono ben più elevati.

Google e Microsoft hanno annunciato di voler eliminare gradualmente questi certificati e raggiungere zero emissioni nette entro il 2030, mentre le altre big tech non si sono ancora pronunciate in questa direzione.

Il particolare caso di Amazon

Operando anche nell’offline (inteso come trasporto e consegna dei prodotti) Amazon si distingue per il suo doppio impatto ambientale. Sebbene i suoi data center (tramite Amazon Web Services) rappresentino oltre metà del reddito operativo della società, non sono la principale fonte di emissioni. La logistica e distribuzione dei prodotti pesano di più, con un impatto ambientale complessivo che quasi eguaglia quello delle altre big tech messe insieme.

Tuttavia, Amazon non è inclusa nei calcoli delle emissioni “in eccesso” rispetto al dichiarato, poiché gran parte del suo impatto rientra nelle emissioni Scope 3, che non sono sempre contabilizzate nei report ufficiali.

Nel frattempo, tutte e cinque le aziende tecnologiche hanno rivendicato la neutralità carbonica, sebbene Google abbia abbandonato l’etichetta l’anno scorso dopo aver intensificato i suoi standard di contabilizzazione del carbonio. A luglio, Amazon ha affermato di aver raggiunto il suo obiettivo con sette anni di anticipo e di aver implementato un taglio lordo delle emissioni del 3%.
La narrazione è contestata da Amazon Employees for Climate Justice, un gruppo di difesa composto da attuali dipendenti della big tech insoddisfatti delle sua azioni a tutela del clima. Un rappresentante dell’associazione ha spiegato: “È una questione di contabilità creativa. […] Amazon, nonostante tutte le pubbliche relazioni e la propaganda che si vedono sui suoi parchi solari, sui suoi furgoni elettrici, sta espandendo il suo uso di combustibili fossili, sia nei data center che nei camion diesel”.

Il trucco dei certificati

Nei data center, uno degli strumenti principali di quella che viene definita “contabilità creativa” sono i certificati di energia rinnovabile, chiamati Recs (Renewable Energy Certificates). Si tratta di certificati che un’azienda può acquistare per dimostrare di aver coperto parte del proprio consumo energetico con energia elettrica generata da fonti rinnovabili. Tuttavia, c’è un dettaglio importante: l’energia rinnovabile non deve necessariamente essere utilizzata direttamente nei loro impianti. Può essere prodotta ovunque, anche a grande distanza, senza alcun legame diretto con il luogo in cui si trovano le strutture dell’azienda.

Questi certificati servono per calcolare le cosiddette emissioni “market-based” (basate sul mercato), cioè i dati ufficiali sulle emissioni comunicati dalle aziende. Se invece non si considerano i Recs e i crediti di compensazione, si ottengono le emissioni “location-based” (basate sulla posizione), che rappresentano le emissioni effettive prodotte nell’area in cui i dati vengono elaborati.

Ed è proprio su queste emissioni reali che emergono i dati più preoccupanti, resi noti dal The Guardian.

Il futuro incerto dell’energia per i data center

La crescente domanda energetica dei data center rischia di mettere sotto pressione le infrastrutture energetiche globali. Secondo l’Electric Power Research Institute, il consumo di elettricità potrebbe raddoppiare entro il 2030, aggravato dalla lentezza con cui si stanno rinnovando le reti energetiche.

Marc Ganzi, CEO di DigitalBridge, ha avvertito che il settore dei data center potrebbe esaurire le risorse energetiche entro due anni se lo sviluppo dell’Ai continuerà a privilegiare il profitto a scapito della sostenibilità. Paesi come l’Italia, ostacolati da lungaggini burocratiche, rischiano di trovarsi in difficoltà nel soddisfare questa crescente domanda.

La sfida energetica richiede:

  • Trasparenza nelle dichiarazioni delle emissioni, eliminando pratiche come l’uso eccessivo di certificati di energia rinnovabile;
  • Investimenti in infrastrutture energetiche sostenibili, accelerando la transizione verso energie rinnovabili effettive;
  • Innovazioni tecnologiche per ridurre i consumi energetici delle applicazioni di Ai e delle operazioni cloud.

Le big tech sono tra i principali motori della trasformazione digitale, ma il loro impatto ambientale non è più sostenibile. L’Intelligenza artificiale aggrava ulteriormente la situazione, ma al tempo stesso potrebbe essere un valido alleato contro la crisi climatica grazie alla sua capacità predittiva e generativa.

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