Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha lanciato un appello diretto ai datori di lavoro italiano, invitando gli imprenditori a “fare la loro parte e riconoscere ai lavoratori aumenti stipendiali”. La richiesta evidenzia che la contrattazione collettiva, a lungo considerata una valida alternativa al salario minimo, non basta a garantire retribuzioni adeguate in un contesto inflattivo.
Le parole del ministro, pronunciate ieri 24 settembre a Palazzo Madama durante il dibattito sul Documento di programmazione fiscale, arrivano in un momento critico per il Paese, che aspetta la prossima Legge di bilancio consapevole dei rigidi paletti di spesa, aggravati dall’obbligo di aumentare le risorse destinate alla difesa. Verosimilmente l’Italia (così come altri Paesi) non raggiungerà il 5% del Pil promesso a Trump e alla Nato entro il 2035, ma in ogni caso dovrà aumentare la propria spesa militare.
Intanto, il potere d’acquisto degli italiani ha subito una contrazione drammatica negli ultimi anni, trasformando spesso la questione salariale in una emergenza sociale.
Bonus Giorgetti: di cosa si tratta?
Il ministro riconosce che “nel pubblico impiego abbiamo recuperato contratti che erano fermi” e chiede al settore privato di adeguarsi. Poche ore prima del suo discorso, il Senato ha approvato una delega che di fatto affossa il salario minimo, stravolgendo la proposta delle opposizioni.
La tematica lavorativa è strettamente legata a quella demografica: i lavoratori, così come gli italiani, sono sempre più anziani e la produttività ne risente. Le previsioni sono ancora peggiori della situazione attuale. A causa della crisi demografica, infatti, nei prossimi due decenni non ci saranno abbastanza italiani giovani per rimpiazzare i posti che resteranno vacanti. Anche per questo, il ministro Giorgetti chiede ai privati di aumentare i salari, che costituiscono un elemento fondamentale (anche se non l’unico) per chi sceglie se diventare genitori o meno.
Le misure per incentivare la natalità non stanno generando gli effetti desiderati e qualsiasi intervento nuovo avrà bisogno di anni, se non decenni, per dare i suoi frutti. L’unica cosa che si può fare adesso è rallentare la perdita di manodopera, rimandare l’emorragia sperando che la ferita demografica e occupazionale del Paese si rimargini in tempo.
In tal senso, è stato approvato il cosiddetto “bonus Giorgetti”, entrato in vigore dal 1° settembre 2025, per disincentivare l’uscita anticipata dal lavoro. Questo incentivo permette a chi potrebbe andare in pensione anticipata ma sceglie di continuare a lavorare di ottenere un aumento netto del salario pari al 10% attraverso l’esonero dal versamento della quota contributiva personale, pari al 9,19% per i dipendenti del Fondo pensioni lavoratori dipendenti.
Il crollo del potere d’acquisto dal 2020 al 2024
I numeri raccontano un trend impietoso. Dal gennaio 2020 a oggi, l’indice generale dei prezzi al consumo in Italia è aumentato del 19,2%, il che significa che 1.000 euro del 2020 valgono oggi poco più di 830 euro in termini reali. Basti pensare che le retribuzioni contrattuali reali di marzo 2025 risultano inferiori di circa l’8% rispetto a quelle di gennaio 2021.
Nel 2023, l’inflazione è aumentata a una velocità doppia rispetto agli stipendi: i salari sono cresciuti del 3,1% mentre l’inflazione reale ha raggiunto il 5,9%. Questo divario ha provocato un crollo dei consumi, con particolare gravità per i lavoratori più poveri, sui quali il peso specifico del caro vita diventa insostenibile.
Il presidente Sergio Mattarella ha sintetizzato la gravità della situazione in occasione del Primo maggio scorso: “Permangono aspetti di preoccupazione sui livelli salariali. L’Italia si distingue per una dinamica salariale negativa nel lungo periodo, con salari reali inferiori a quelli del 2008”.
La differenza tra salario e stipendio
Prima di analizzare i dati retributivi, è importante chiarire la distinzione terminologica. Il salario indica storicamente una retribuzione variabile corrisposta in base alle prestazioni lavorative (ore, giorni, unità produttive), mentre lo stipendio costituisce un compenso prestabilito e fisso.
Originariamente il salario spettava agli operai (colletti blu) su base oraria, mentre lo stipendio veniva erogato ai funzionari (colletti bianchi) come compenso mensile fisso. Oggi questa distinzione è superata e si utilizza comunemente “stipendio” per definire la retribuzione dei lavoratori subordinati.
Stipendi medi in Italia: i dati 2024
Secondo il rapporto Jp Salary Outlook 2024, la retribuzione annua lorda media in Italia è stata di 31.856 euro (2.655 euro mensili), in aumento del 3,3% rispetto all’anno precedente.
La stratificazione per inquadramento rivela profonde disparità: i dirigenti percepiscono 103.418 euro lordi annui, i quadri 55.632 euro, gli impiegati 32.174 euro e gli operai 25.522 euro. I giovani tra i 15 e i 34 anni nel settore privato si fermano a 15.616 euro lordi annui, ben al di sotto della media complessiva di 22.839 euro.
Confronto con i Paesi europei
I dati Eurostat ed Eurostat si discostano di poco: secondo le indagini effettuate, lo stipendio medio lordo mensile nel 2023 è di circa 2.729 euro contro la media europea è di 3.155 euro: gli italiani guadagnano mediamente 429 euro in meno al mese rispetto agli altri europei. In un solo anno il divario supera i 5.000 euro.
Il Belpaese si colloca al 21° posto tra i 34 Paesi Ocse analizzati e il confronto risulta ancora più severo considerando il potere d’acquisto: gli stipendi italiani hanno un valore di 24.051 euro contro la media Ue di 27.530 euro. Il salario medio italiano è inferiore del 45% rispetto a quello tedesco, del 18% rispetto a quello francese e del 2% rispetto a quello spagnolo.
Il primato negativo dell’Italia nell’Ocse
L’Italia detiene il record negativo tra le principali economie Ocse per il calo più significativo dei salari reali. Nel primo trimestre 2024, i salari risultavano più bassi del 6,9% rispetto al 2019, mentre la media Ocse registrava una crescita del 2,4% nello stesso periodo.
Il gap diventa abissale se si considerano un arco trentennale: tra il 1990 e il 2020, l’Italia ha registrato un calo del salario medio annuale del 2,9%, mentre Germania e Francia hanno visto aumenti rispettivamente del 33,7% e del 31,1%.
Le conseguenze del caro vita sono evidenti: più della metà degli italiani (54,2%) prova un senso di regressione sociale e il 75,1% di coloro che si considerano ceto medio crede che le generazioni future vivranno peggio di quelle attuali. Il rapporto Censis da cui emergono questi dati, pubblicato l’anno scorso e commissionato dalla Confederazione dei dirigenti e delle alte professionalità del pubblico e del privato (Cida), usa il termine “fragilizzazione” per descrivere il crollo subito dalle aspettative italiane.
C’era una volta la classe media che vedeva al futuro con ottimismo, convinta che la propria condizione sarebbe migliorata negli anni. Il tempo in cui essere ceto medio non era motivo di frustrazione ma di motivazione, rafforzata da una forte volontà pubblica di investire nel lavoro, nella carriera e nell’istruzione. L’idea era che il sistema, pur con tutte le sue complessità, fosse meritocratico e che gli sforzi sarebbero stati ripagati.
Oggi, di tutta questa bellezza (o apparente tale) al ceto medio italiano, e soprattutto ai giovani, resta ben poco.