L’Europa mette mano alle sue regole sull’acqua con una revisione che tocca direttamente fiumi, laghi e falde da cui dipendono approvvigionamento idrico e produzione agricola. Dopo mesi di trattative, Consiglio e Parlamento hanno trovato un’intesa raggiunta, in attesa del via libera finale, per aggiornare la lista delle sostanze inquinanti prioritarie. Dentro ci finiscono pesticidi, residui farmaceutici, bisfenoli e un pacchetto consistente di Pfas. Fuori, molecole datate come l’atrazina. Sul tavolo ci sono anche standard più severi e regole di monitoraggio più stringenti. È un passo che allinea la politica idrica europea alle evidenze scientifiche, ma che concede agli Stati membri tempi lunghi per adeguarsi: fino al 2039 e, in alcuni casi, addirittura al 2045.
Nuove sostanze, nuovi limiti: cosa cambia
Il cuore dell’intesa è l’aggiornamento delle liste di priorità. Bruxelles introduce un approccio che non guarda più solo alla singola molecola, ma al quadro complessivo. Da qui la scelta di fissare una soglia cumulativa per i pesticidi nelle acque superficiali, 0,2 microgrammi per litro, che copre più sostanze insieme. È una risposta a una critica di lungo corso: monitorare un contaminante alla volta non basta, perché gli ecosistemi sono esposti a cocktail chimici. Entrano poi i residui farmaceutici, spesso ignorati ma sempre più presenti, e il bisfenolo A che viene classificato come “sostanza prioritaria pericolosa”, con l’obiettivo della progressiva eliminazione. Al gruppo dei Pfas si aggiunge anche il trifluoroacetico, sottoprodotto spesso trascurato. Allo stesso tempo, dall’elenco escono molecole considerate non più rilevanti come l’atrazina, mentre per altre le soglie vengono abbassate.
L’aggiornamento nasce da un dato di fondo: secondo i piani di gestione dei bacini idrografici, il 46% delle acque superficiali e il 24% delle falde non raggiungono lo “status chimico buono”. La Commissione aveva denunciato un elenco ormai superato, che non contemplava sostanze emergenti e non teneva conto degli effetti cumulativi. L’intesa prova a chiudere questa falla, ma apre un’altra partita: gli Stati dovranno potenziare i laboratori, aggiornare i metodi analitici e sostenere i costi di controlli più sofisticati.
Monitoraggio e deroghe: il compromesso europeo
La revisione non si limita alle sostanze. Cambiano le regole sul monitoraggio. Gli Stati dovranno trasmettere dati biologici ogni tre anni e chimici ogni due, con la possibilità di reporting annuale su base volontaria. Entra in scena anche l’effect-based monitoring: un sistema che misura l’impatto complessivo delle miscele sugli ecosistemi, anziché limitarsi a rilevare concentrazioni chimiche singole. Per ora sarà obbligatorio in forma limitata e solo per alcune sostanze estrogeniche, per un periodo di due anni. Un test sul campo che potrebbe diventare standard.
C’è poi il nodo delle deroghe. L’obbligo di “non deterioramento” viene finalmente definito in linea con la giurisprudenza europea, riducendo gli spazi di interpretazione nazionale. Ma due nuove eccezioni fanno discutere: deterioramenti temporanei e casi in cui l’inquinamento viene spostato senza aumentare il carico complessivo. Il pacchetto prevede garanzie per l’acqua potabile, ma le organizzazioni ambientaliste temono che queste aperture diventino varchi facili per rinvii e scappatoie. È il compromesso tipico di Bruxelles: più chiarezza da una parte, più flessibilità dall’altra.
Per gli Stati meno attrezzati, resta l’ipotesi di un laboratorio comune a livello europeo, da istituire su valutazione della Commissione. Sarebbe una novità assoluta: un centro di riferimento per armonizzare i metodi, condividere dati e supportare chi non ha infrastrutture adeguate. L’idea piace sul piano tecnico, ma comporta decisioni politiche e risorse economiche non banali.
Scadenze lunghe e rischi immediati
Il calendario spiega bene la natura dell’intesa. Gli Stati avranno tempo fino al 21 dicembre 2027 per recepire la direttiva nei loro ordinamenti. Ma per rispettare i nuovi standard la scadenza è il 2039, con proroghe possibili fino al 2045. Per alcune sostanze con limiti più severi, il traguardo scende al 2033. Venti anni restano invece la finestra per eliminare progressivamente le sostanze classificate come “prioritarie pericolose”. Scadenze che danno respiro alle industrie e alle amministrazioni, ma che rischiano di lasciare esposti cittadini ed ecosistemi per decenni.
Nel frattempo, la fotografia attuale non è rassicurante: quasi metà delle acque superficiali europee e un quarto delle falde sono già fuori dai parametri. Rinviare di decenni l’applicazione piena significa convivere ancora a lungo con contaminazioni croniche. I costi? Non solo ambientali, ma anche sanitari ed economici. Le bonifiche di sostanze persistenti come i Pfas si misurano in miliardi l’anno, mentre i danni da esposizione cronica incidono su spesa sanitaria e produttività. L’ambizione resta quella dell’“inquinamento zero” entro il 2050, ma tempi così dilatati rischiano di svuotare il traguardo.
Dalle regole europee ai controlli sul territorio
L’intesa viene raccontata come un punto di equilibrio. Magnus Heunicke, ministro danese per l’Ambiente e l’Uguaglianza di genere, lo ha sintetizzato così: “Questo accordo garantisce che la legislazione europea sull’acqua resti al passo con la scienza e con le sostanze emergenti. Rafforza la protezione di fiumi, laghi e falde, salvaguardando la salute dei cittadini e delle future generazioni”. La frase fotografa la tensione che ha guidato il negoziato: aggiornare la normativa alle evidenze scientifiche, ma senza imporre scadenze ingestibili agli Stati.
Il vero banco di prova sarà l’attuazione nazionale. Non basterà un decreto di recepimento: serviranno controlli più frequenti, laboratori più equipaggiati, depuratori adeguati e politiche agricole meno dipendenti dalla chimica. In Italia il test sarà particolarmente impegnativo: agenzie ambientali regionali con capacità disomogenee, territori già colpiti da contaminazioni croniche, risorse limitate. Bruxelles ha fatto la sua parte con un pacchetto che aggiorna regole e metodi. Ora toccherà ai governi trasformare l’intesa raggiunta in acqua più sicura per i cittadini.