Giappone, la crisi del riso mostra il vero volto del cambiamento climatico

Ondate di calore, tifoni e politiche agricole non più adeguate mettono in crisi la quarta economia mondiale. Prezzi alle stelle e scorte razionate nei supermercati, e c'entra anche il turismo
7 Maggio 2025
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In Giappone, il riso sta diventando un bene sempre più raro e costoso. Colpa di un mix tra maltempo, ondate di calore e politiche agricole miopi ai quali i giapponesi hanno risposto con una corsa a fare scorte. Risultato: il prezioso cereale oggi scarseggia e i prezzi sono saliti alle stelle: per un sacco da 60 kg – la misura standard – si paga fino a 153 euro, il 55% in più di due anni fa. Un segnale preoccupante, che mette a nudo la vulnerabilità anche dei Paesi più avanzati di fronte al cambiamento climatico: il Giappone, infatti, è la quarta economia mondiale.

Una cultura alimentare sotto pressione

Per i giapponesi, il riso non è un alimento qualsiasi: è la base della dieta quotidiana, oltre che materia prima per alimenti tradizionali come onigiri, mochi, sake e aceto di riso. Il Paese consuma oltre 8 milioni di tonnellate del cereale all’anno, con una media di circa 74 chili a testa nei 12 mesi.

Ma è bastato un pessimo raccolto a mettere in crisi tutto il sistema. Nel 2023 infatti la produzione è stata duramente compromessa da un’estate torrida, con ondate di calore record che hanno bruciato interi campi. A peggiorare la situazione, la minaccia dei tifoni e ripetute allerte sismiche hanno gettato milioni di cittadini e ristoratori nel panico, che sono corsi a fare scorta di riso, svuotando rapidamente scaffali e silos e spingendo i prezzi in alto.

Scorte sotto stress e distribuzione inefficiente

Ma il Giappone ha un asso nella manica: dal 1995, in seguito al pessimo raccolto del 1993, accumula scorte del prezioso cereale. Attualmente ne ha da parte circa un milione di tonnellate, da usare, teoricamente, solo in caso di carestie e disastri naturali. In pratica, per il governo la situazione attuale è un’emergenza, così ha deciso di attingere alle sue scorte, annunciando a febbraio il rilascio di 210mila tonnellate di riso. Il primo lotto di 150mila tonnellate è andato all’asta a marzo.

Il ministro dell’Agricoltura, delle foreste e della pesca Taku Eto ha ammesso che i prezzi sono molto alti e che questo ha “un impatto significativo sulla vita delle persone”, ma si detto fiducioso che immettendo materia prima sul mercato i prezzi scenderanno. “Esorto tutti a non preoccuparsi”, ha aggiunto.

Tuttavia, i prezzi non accennano a scendere. Una delle ipotesi del perché, riportata dai media giapponesi, è che solo una piccola parte del riso ha effettivamente raggiunto i grossisti, mentre il grosso è rimasto bloccato nella catena distributiva. Un sintomo di problemi logistici che ha come conseguenza scaffali vuoti e vendite razionate (alcuni supermercati hanno posto un limite di 5 kg per cliente).

I numeri li fornisce la Federazione Nazionale delle Associazioni Cooperative Agricole Zen-Noh, secondo cui solo circa 55mila tonnellate di riso sono state trasferite ai grossisti delle 200mila ricevute in aprile. E lo stesso sarebbe successo nel 2024, quando i distributori hanno avuto a disposizione 230mila tonnellate di riso in meno rispetto al 2023, nonostante un incremento produttivo di 180mila tonnellate, suggerendo possibili speculazioni o accumuli da parte di grossisti.

Lo stesso Eto ha sostenuto che il riso ci sarebbe, ma che non è riuscito a raggiungere i supermercati. Il motivo non lo ha chiarito, ma ha ipotizzato che una certa quantità fosse stata messa da parte e nascosta da qualcuno.

E mentre sui social proliferano le immancabili teorie cospirazioniste sulle ragioni della carenza di riso, c’è un problema ulteriore: anche laddove il riso è arrivato sugli scaffali, molti giapponesi non vogliono acquistarlo, per il timore che sia vecchio o di scarsa qualità.

Un sistema agricolo rigido e poco sostenibile

Il meteo estremo non è l’unico fattore alla base dell’attuale crisi del riso in Giappone. Paradossalmente, il Paese incentiva da decenni la riduzione della produzione del cereale, con sussidi agli agricoltori affinché producano meno. Una strategia pensata per sostenere i prezzi e il reddito agricolo, ma che oggi mostra tutti i suoi limiti. Gli agricoltori, spesso anziani (età media 71 anni), non riescono a far fronte all’aumento della domanda, mentre le nuove generazioni si allontanano da un settore percepito come poco attrattivo: secondo i dati del ministero dell’Agricoltura, il numero degli agricoltori è diminuito del 25% tra il 2015 e il 2020, e questo comporta un abbandono progressivo anche delle risaie.

E c’è altro. Le rigide politiche protezionistiche hanno disincentivato l’importazione: dalla fine degli anni ’60, il Giappone ha imposto dazi elevatissimi sul riso estero, limitando gli acquisti a 100mila tonnellate l’anno, nella speranza di raggiungere l’autosufficienza. Ma vista l’attuale crisi, e per la prima volta dal 1999, il governo ora ha deciso di importare il cereale dalla Corea del Sud: per ora solo 22 tonnellate, ma la novità è comunque un indicatore della gravità della situazione.

Il clima cambia, la sicurezza alimentare vacilla

Al di là degli effetti di politiche agricole e commerciali forse da rivedere, dietro la crisi del riso c’è un dato ormai inconfutabile: il clima non è più stabile. L’estate 2023 è stata estremamente calda, e il 2024 ancora di più. Se un raccolto fallisce, l’impatto si avverte per tutto l’anno successivo, dato che il riso viene raccolto solo una volta nei 12 mesi.

E anche l’aumento del turismo post-pandemia ha fatto e fa la sua parte, accentuando i consumi: più visitatori significano più richieste da parte di hotel e ristoranti, in un sistema agricolo già stressato.

Ecco perché il caso del riso in Giappone mette in luce che anche le nazioni più ricche rischiano la sicurezza alimentare, se non rivedono le proprie strategie agricole, distributive ed ecologiche. La crisi climatica non colpisce solo i ghiacciai o le foreste: colpisce il piatto, la stabilità dei prezzi, la coesione sociale.

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