Dieci ore al giorno per un weekend lungo: il prezzo della settimana corta

Berlino apre alla flessibilità settimanale: 40 ore distribuite su quattro giorni. E in Italia? Il dibattito resta impigliato tra sogni di benessere e rigidità di bilancio.
22 Aprile 2025
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Settimana Corta

C’è chi sogna un weekend lungo come una vacanza, chi vede nella settimana corta la rivoluzione gentile che rimetterà il tempo al centro della vita. E poi ci sono loro: i tedeschi. Sì, perché mentre in Italia il dibattito sulla settimana di quattro giorni si infrange contro i conti della Ragioneria generale dello Stato, a Berlino il contratto di coalizione del 2025 ha appena sganciato un siluro sul vecchio paradigma delle otto ore al giorno. Si cambia passo: non più un tetto giornaliero, ma settimanale. Quaranta ore distribuite a piacere. Quattro giorni da dieci ore? Possibile. Ma a che prezzo? Salute, sicurezza, produttività e qualità della vita sono i terreni dove si gioca una partita delicatissima. Eppure, la Germania non è sola: dal Regno Unito alla Islanda, l’Europa sperimenta. L’Italia, per ora, osserva.

Dalla rigidità giornaliera alla flessibilità settimanale

La proposta contenuta nel contratto di coalizione del governo tedesco per il 2025 ha tutta l’aria di una rivoluzione copernicana del lavoro: addio al limite giornaliero delle 8 ore (salvo eccezioni), benvenuto al tetto settimanale di 40 ore. Una novità che sembra semplice, ma che apre scenari del tutto nuovi nella vita quotidiana dei lavoratori. La regola diventerebbe: lavora quanto vuoi, purché non superi le 40 ore in sette giorni. Teoricamente, un operaio o un impiegato potrebbe concentrare tutto il proprio impegno su quattro giorni da dieci ore ciascuno, e godersi un weekend lungo da tre.

Ma non si tratta solo di flessibilità. Il nuovo sistema comporta una responsabilità enorme, sia per i datori di lavoro sia per i dipendenti. Infatti, senza una solida regolamentazione su pause, recuperi e carichi di lavoro, il rischio è che il lavoro intensivo provochi effetti collaterali tutt’altro che trascurabili: aumento del burnout, maggiore affaticamento, calo di concentrazione. A essere più esposti sarebbero i lavoratori dei settori critici – sanità, trasporti, edilizia – dove errori e disattenzioni possono avere conseguenze gravi.

Frank Werneke, voce influente dei Verdi, ha già espresso forte preoccupazione: “I dipendenti dei servizi, già sotto pressione e privi di reale partecipazione, rischiano un peggioramento delle condizioni”. Il sindacato tedesco teme che il nuovo modello, lungi dal migliorare la qualità della vita, finisca per trasformarsi in una compressione dei diritti e della salute. Tuttavia, sul fronte opposto, non mancano le voci favorevoli: Alexander von Preen, a capo dell’associazione del commercio al dettaglio (HDE), ritiene invece che imprese e lavoratori abbiano bisogno di strumenti più flessibili per trovare un equilibrio tra vita personale e professionale.

Oltre Berlino

Quella tedesca non è un’idea del tutto isolata: anzi, potremmo dire che la Germania si sta sintonizzando con un trend europeo che ha già visto diverse sperimentazioni e, in certi casi, svolte strutturali. In Islanda, tra il 2015 e il 2019, due maxi-esperimenti hanno coinvolto circa 2.500 lavoratori pubblici e privati, portando a risultati sorprendenti: stessa produttività (se non migliore), meno stress, più soddisfazione lavorativa. Il governo islandese ha così deciso di rendere permanente la possibilità di ridurre la settimana a quattro giorni senza tagli salariali.

Anche il Belgio ha avviato un modello più flessibile, che consente di concentrare l’orario lavorativo in quattro giorni, purché non si superino le 38 o 40 ore settimanali. La settimana corta piace anche agli spagnoli, che hanno ridotto le ore lavorative da 40 a 37,5. Il Regno Unito ha invece portato avanti il più grande test mai condotto: 61 aziende hanno sperimentato la settimana corta per sei mesi, mantenendo lo stipendio invariato. Il risultato? Il 92% delle imprese ha deciso di continuare il modello, dichiarando aumenti di produttività, riduzione dell’assenteismo e miglioramenti nel benessere psico-fisico dei dipendenti.

Si tratta di segnali importanti che raccontano una trasformazione culturale prima ancora che normativa. La settimana corta non è più un’utopia da futuristi o un privilegio per pochi tech workers, ma un orizzonte concreto per ridefinire l’equilibrio tra lavoro e vita. Tuttavia, la chiave del successo risiede sempre nella gestione: orari intensivi eccessivi, se imposti o non regolati, rischiano di cancellare i benefici attesi. L’Europa sembra pronta a scommettere su modelli elastici, ma chiede in cambio responsabilità, controlli, dialogo sociale.

E in Italia?

E poi c’è l’Italia. Dove la settimana corta, almeno per ora, resta un’idea affascinante ma politicamente bocciata. La proposta avanzata da M5S, PD e AVS di introdurre su scala nazionale la settimana lavorativa di quattro giorni a parità di stipendio è stata stroncata dalla Ragioneria generale dello Stato. Il motivo è semplice, almeno in apparenza: costerebbe troppo. Soprattutto nella pubblica amministrazione, dove ogni ora risparmiata andrebbe compensata con straordinari o nuove assunzioni, con un impatto esplosivo sul bilancio.

Eppure, anche nel Bel Paese qualcosa si muove. Alcune aziende, soprattutto nei settori tech e creativi, stanno sperimentando formule alternative: settimane da 32 o 36 ore, orari distribuiti su quattro giorni, maggiore libertà nella gestione del tempo. I primi feedback? Buoni. I lavoratori mostrano più motivazione, le assenze calano, il turnover si riduce. Ma queste esperienze restano gocce nel mare: senza un intervento strutturale, la settimana corta rischia di restare una prerogativa per pochi fortunati.

Il punto dolente, in Italia, è sempre lo stesso: la produttività. Un nodo irrisolto che frena qualsiasi riforma ambiziosa. Introdurre la settimana corta, senza una trasformazione del modello organizzativo e produttivo, rischia di creare più problemi che vantaggi. Da qui la prudenza – o, secondo alcuni, l’immobilismo – del legislatore. Ma il dibattito è tutt’altro che chiuso. Anche perché la pandemia ha cambiato le carte in tavola: il tempo è diventato il vero valore, e il lavoro, per essere sostenibile, deve adattarsi a nuove esigenze. Altrimenti, sarà il lavoro stesso a diventare insostenibile.

Lavorare meno (o lavorare meglio)?

Ma alla fine, qual è la vera posta in gioco? Ridurre il numero di giorni lavorativi, oppure migliorare la qualità del lavoro? La settimana corta, da questo punto di vista, è solo uno strumento, non un fine. Perché non basta comprimere l’orario per ottenere un miglioramento reale. Serve una visione. E serve anche una profonda revisione dei meccanismi che regolano l’organizzazione del lavoro, la formazione continua, il benessere psicologico, la leadership.

In Germania, così come altrove, il passaggio a un sistema settimanale più flessibile potrebbe avere effetti benefici solo se accompagnato da una gestione intelligente: pause obbligatorie, diritto alla disconnessione, controllo sull’intensità del carico, forme di partecipazione dei lavoratori. Diversamente, dieci ore di lavoro al giorno potrebbero diventare una trappola mascherata da innovazione.

Il rischio, infatti, è che si confonda la flessibilità con la disponibilità illimitata. E che il tempo libero, anziché aumentare, venga colonizzato da notifiche, email, straordinari non retribuiti. L’Europa, in questo, ha già dato una direzione chiara: il tetto massimo settimanale di 48 ore (straordinari inclusi) previsto dalla direttiva europea è un limite invalicabile. Ma affinché la settimana corta diventi un alleato, e non un nemico, bisogna ripensare le logiche del lavoro a partire da una domanda fondamentale: cosa significa, oggi, lavorare bene?

A Berlino lo stanno chiedendo con coraggio. In Italia, forse, siamo ancora nella fase delle domande sussurrate. Ma il tempo – quello che vogliamo riprenderci – potrebbe presto diventare un argomento politico, economico, culturale. Forse il più urgente.

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