Non è solo questione di panorama o di brezza marina: abitare a pochi chilometri dal mare potrebbe regalare fino a un anno di vita in più. A dirlo è un’ampia ricerca guidata dall’Ohio State University, e pubblicata su Environmental Research, che ha passato al setaccio oltre 66mila aree censuarie per capire come la vicinanza a mari, fiumi o laghi influenzi la longevità. I ricercatori hanno scoperto che abitare entro una trentina di miglia dalla costa oceanica o marina si associa, in media, a un anno di vita in più rispetto alla media nazionale statunitense. L’effetto scompare – e in certi casi si inverte – quando l’acqua è quella di un grande lago o di un fiume urbano.
Nelle città interne bagnate da specchi d’acqua superiori a quattro miglia quadrate, l’aspettativa di vita scende sotto la media. Non è un caso isolato: la differenza si ripete in contesti urbani diversi e fotografa un divario ambientale e sociale che potrebbe avere implicazioni anche per le aree europee e mediterranee. Perché, se l’oceano o il mare sembrano offrire un microclima e condizioni di vita favorevoli, i corsi d’acqua interni nelle città tendono a concentrarsi in aree dove si sommano inquinamento, degrado e vulnerabilità socioeconomica.
Vivere in riva al mare fa bene
Nei territori costieri il vantaggio è reale e misurabile. Il primo fattore individuato dai ricercatori è il clima: temperature più miti, meno giorni di caldo estremo e massime più basse rispetto alle zone interne. Questa moderazione termica riduce lo stress sul sistema cardiovascolare e respiratorio, specialmente nei soggetti anziani o con patologie croniche. Il secondo elemento è la qualità dell’aria, generalmente migliore grazie alla ventilazione costante e all’assenza di grandi poli industriali a ridosso delle spiagge.
Lo studio guidato da Jianyong “Jamie” Wu ha messo in luce anche un terzo fattore: il contesto socioeconomico. Le aree costiere presentano mediamente redditi più alti, che si traducono in un maggiore accesso a cure sanitarie, alimentazione di qualità e opportunità di attività fisica. In molte comunità marittime le infrastrutture di trasporto sono più efficienti, le aree verdi e le piste pedonali più diffuse, l’offerta ricreativa più ampia. “Abbiamo trovato una chiara differenza – nelle aree costiere, le persone vivono più a lungo”, ha spiegato Wu, sottolineando come il vantaggio sia trasversale: si registra tanto nei quartieri urbani sul mare quanto nei centri rurali vicini alla costa. È il combinato disposto di condizioni ambientali e risorse socioeconomiche a produrre l’effetto, non un singolo “beneficio naturale” isolato.
Quando l’acqua diventa un fattore di rischio
Il quadro si ribalta nelle città interne affacciate su grandi fiumi o laghi. Qui la vicinanza all’acqua non offre protezione, ma si associa a un’aspettativa di vita inferiore. Le cause, secondo la coautrice Yanni Cao, sono multiple: inquinamento atmosferico e idrico, traffico veicolare intenso, presenza di impianti industriali lungo le rive, scarsità di spazi sicuri per muoversi a piedi o in bicicletta. Questi specchi d’acqua si trovano spesso in quartieri con redditi bassi e servizi sanitari limitati, dove le disuguaglianze socioeconomiche amplificano i rischi ambientali.
Anche il pericolo di inondazioni è un elemento pesante. Vivere in aree a rischio idraulico significa affrontare non solo danni diretti, ma anche uno stress cronico legato alla possibilità di perdere la casa o il lavoro. L’analisi ha rilevato che, al contrario, nelle zone rurali interne la vicinanza a un lago o a un fiume può avere effetti neutri o leggermente positivi, grazie a un minore carico di inquinanti e a un ambiente naturale meno compromesso. Questo dimostra che il problema non è l’acqua in sé, ma il contesto urbano in cui si inserisce: infrastrutture, qualità dell’aria, pianificazione territoriale e reddito medio sono variabili decisive.
Pianificare con gli “spazi blu”
Il messaggio dello studio va oltre la statistica: serve una strategia per integrare gli spazi blu nella pianificazione urbana in modo che diventino fattori di salute e non di rischio. Gli autori indicano interventi chiave:
- ridurre le emissioni in prossimità di fiumi e laghi urbani;
- creare infrastrutture per la mobilità attiva;
- proteggere le aree esposte a inondazioni;
- garantire accesso sicuro agli spazi ricreativi.
La sola presenza di un corso d’acqua non basta a migliorare la qualità della vita: senza politiche mirate, può trasformarsi in un elemento che aggrava le disuguaglianze.
Cao collega questi dati a un fenomeno più ampio: in diversi Paesi ad alto reddito, l’aspettativa di vita ha smesso di crescere e in alcuni casi è calata. Fattori ambientali e determinanti sociali intrecciati stanno contribuendo a questa inversione. “Non tutti gli spazi blu sono uguali”, avverte Wu, e ignorare le differenze tra costa e acque interne urbane significa rischiare errori di pianificazione che incidono direttamente sulla salute collettiva. Per amministrazioni e progettisti, la sfida è trasformare la prossimità all’acqua in un vantaggio reale, anche dove oggi rappresenta un problema.
L’Italia e il Mediterraneo di fronte alla sfida degli “spazi blu”
Se le tendenze individuate dalla Ohio State University riguardano dati statunitensi, il meccanismo alla base non è confinato a quel contesto. In Italia, oltre un terzo della popolazione vive lungo le coste, e molte città godono di un microclima temperato e di una forte vocazione turistica, elementi che possono produrre effetti simili a quelli osservati nello studio. Basta confrontare i dati di aspettativa di vita: province come Savona, Ancona o Sassari, con ampie porzioni di territorio costiero e clima moderato, si collocano stabilmente sopra la media nazionale, secondo i dati Istat. Qui il mare non è solo un elemento paesaggistico, ma incide su temperature, qualità dell’aria e, in alcuni casi, sull’offerta di spazi pubblici per attività fisica.
Il quadro cambia nelle aree urbane interne affacciate su grandi corsi d’acqua. Torino, Padova o Ferrara, pur vantando storici legami con Po, Adige o Reno, devono fare i conti con livelli di inquinamento atmosferico elevati e con quartieri fluviali in cui il degrado infrastrutturale riduce l’accessibilità e la sicurezza. Le pianure fluviali, spesso densamente edificate, sono anche più esposte al rischio di esondazioni, come dimostrano gli episodi degli ultimi decenni. In questo senso, l’Italia non è lontana dal modello urbano problematico descritto nello studio americano.
Il Mediterraneo presenta inoltre casi emblematici di gestione virtuosa e non. Città come Barcellona o Marsiglia hanno investito nella riqualificazione delle aree portuali e nella creazione di lungomare attrezzati, integrando l’acqua nel tessuto urbano con percorsi ciclabili, spazi verdi e protezioni contro l’erosione. Al contrario, in alcune città balcaniche e dell’Europa orientale, la vicinanza a laghi o fiumi interni non si traduce in benefici: scarichi industriali, assenza di depurazione e scarsa pianificazione mantengono alto il rischio sanitario.
Per l’Italia, la sfida è doppia: proteggere e valorizzare i vantaggi ambientali e sociali delle zone costiere, e invertire il segno negativo delle acque interne urbane attraverso bonifiche, riconversioni industriali e progetti di rigenerazione che mettano la salute pubblica al centro. Lo studio americano, letto in chiave comparativa, suggerisce che la distanza tra “spazio blu” benefico e “spazio blu” problematico non è geografica, ma politica e gestionale.