Il mare aperto non è più terra di nessuno: entra in vigore il Trattato sulla biodiversità

Aree protette, valutazioni ambientali obbligatorie ed equa condivisione dei benefici: cosa prevede il nuovo accordo internazionale sugli oceani
22 Settembre 2025
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oceano mare

Per decenni le acque internazionali sono state il regno dell’assenza di regole: pesca industriale spinta al limite, navi che scaricavano in mare ciò che a terra sarebbe stato illegale, sperimentazioni minerarie avviate senza controlli. In quell’enorme porzione del pianeta che non ricade sotto la sovranità di alcuno Stato – i due terzi degli oceani, quasi metà del globo – vigeva una sostanziale anarchia. Adesso la partita cambia. Con il raggiungimento delle 60 ratifiche, il Trattato sulla Biodiversità oltre le Giurisdizioni Nazionali (Biodiversity Beyond National Jurisdiction Agreement – BBNJ) diventa operativo nel 2026 e porta con sé un nuovo quadro vincolante: valutazioni d’impatto ambientale obbligatorie, possibilità di creare aree marine protette anche in alto mare, regole sull’uso delle risorse genetiche. In sostanza, la fine dell’impunità su scala oceanica.

Aree protette e valutazioni preventive

La parte più tangibile del trattato riguarda l’istituzione di aree marine protette nelle acque internazionali, dove prima non esisteva alcun meccanismo vincolante. Si tratta di un cambio di scenario strategico: proteggere aree lontane dalle coste significa garantire la sopravvivenza di specie migratorie, tutelare ecosistemi profondi ancora poco conosciuti e assicurare la capacità degli oceani di assorbire carbonio. È anche l’unico modo realistico per centrare l’obiettivo globale – il 30% degli oceani protetti entro il 2030 previsto dal quadro Kunming-Montreal.

Il trattato introduce inoltre un obbligo di valutazioni d’impatto ambientale prima di avviare attività economiche in alto mare. Finora le decisioni erano prese a posteriori, quando i danni erano già in atto. Con il Trattato sulla Biodiversità oltre le Giurisdizioni Nazionali, chi vuole esplorare i fondali per estrarre minerali, testare nuove biotecnologie o anche solo ampliare flotte di pesca dovrà dimostrare, dati alla mano, di non mettere a rischio la biodiversità: significa spostare il baricentro dalla logica del “danneggia e paga” a quella del “non danneggiare affatto”.

Il trattato si inserisce nel solco dei grandi negoziati multilaterali culminati con la Conferenza ONU sull’Oceano di Nizza, dove è stata ribadita la necessità di regole condivise. Per governi e imprese si apre quindi una fase radicalmente nuova. Molti settori, dall’energia all’alimentare, dovranno ricalibrare pratiche consolidate. E non è scontato che tutti accettino senza resistenze: dietro i proclami di protezione si muovono lobby che hanno investito miliardi nello sfruttamento del mare profondo.

Equità e risorse genetiche

Se la creazione di aree protette è il simbolo visibile del trattato, la partita decisiva si gioca sulla gestione delle risorse genetiche marine. In quelle profondità vivono organismi con potenziali applicazioni farmaceutiche e biotecnologiche enormi: enzimi capaci di resistere a condizioni estreme, batteri che producono molecole innovative, specie con proprietà uniche. Finora, chi trovava queste risorse se le teneva. Con il Trattato sulla Biodiversità oltre le Giurisdizioni Nazionali, i vantaggi economici dovranno essere condivisi in modo equo attraverso un sistema di benefit-sharing.

Non è un passaggio di second’ordine: senza un meccanismo equo, il rischio è che il trattato diventi l’ennesimo strumento di appropriazione da parte dei Paesi più avanzati, lasciando i Paesi in via di sviluppo ai margini. Per questo l’accordo prevede trasferimento di tecnologie, formazione e capacity building: in sostanza, strumenti per consentire anche agli Stati con meno risorse di partecipare a ricerca, monitoraggio e gestione. È qui che si giocherà la credibilità dell’intero impianto.

A complicare la questione c’è il tema della proprietà intellettuale. Chi brevetta un enzima isolato in alto mare deve poi restituire parte dei benefici? Come si regolano le informazioni digitali sulle sequenze genetiche? Sono nodi tecnici ma dirompenti, che potrebbero aprire contenziosi simili a quelli già visti su vaccini e biotecnologie. In altre parole, dietro la facciata della protezione marina, il trattato mette mano a uno dei dossier più delicati della geopolitica del futuro.

L’Europa spinge, ma la sfida è globale

L’Unione europea rivendica un ruolo centrale nella nascita del Trattato sulla Biodiversità oltre le Giurisdizioni Nazionali. Ha guidato la High Ambition Coalition, che riunisce oltre 40 Paesi, e ha già avviato i lavori per recepire il trattato nel diritto comunitario. Bruxelles ha inoltre stanziato 40 milioni di euro per sostenere l’attuazione dell’accordo, in particolare nei Paesi in via di sviluppo. Ursula von der Leyen lo ha definito “un passo storico per il pianeta”, mentre il commissario europeo per la pesca e gli oceani, Costas Kadis, ha parlato di “prova di cooperazione multilaterale riuscita”.

Al di là degli annunci, l’Ue sa che la vera partita sarà l’applicazione concreta. Servono controlli su flotte industriali che operano a migliaia di chilometri dalle coste, serve coordinamento tra Stati con capacità di monitoraggio molto diverse, servono risorse per la sorveglianza satellitare e per la raccolta di dati scientifici. Bruxelles ha già investito in questa direzione, con 13 progetti europei per un valore di 116 milioni di euro dedicati alla tutela marina.

Il rischio, altrimenti, è un trattato a due velocità: da una parte chi applica regole stringenti e dall’altra chi continua con lo sfruttamento incontrollato, approfittando delle lacune di enforcement. Per evitare questo scenario, la pressione diplomatica dovrà restare alta. Non basterà celebrare l’entrata in vigore: servirà vigilanza costante, capacità di imporre sanzioni, e un coinvolgimento diretto della società civile e della comunità scientifica. In caso contrario, il trattato rischia di trasformarsi da svolta epocale a occasione sprecata.

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