La sentenza Miteni sui Pfas in Veneto: un passo per la giustizia ambientale italiana

I Pfas si accumulano nel sangue e negli organi e vengono smaltiti dal corpo umano in oltre dieci anni
9 Luglio 2025
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Acque Reflue Canva

La recente sentenza emessa dal tribunale di Vicenza il 26 giugno 2024 ha segnato un passo decisivo per la giustizia ambientale in Italia. Per la prima volta, la Corte d’Assise ha condannato in primo grado undici ex dirigenti dell’azienda chimica Miteni di Trissino (Vicenza), ritenuti responsabili di aver inquinato la seconda falda acquifera più grande d’Europa con i Pfas (sostanze perfluoroalchiliche).

Queste sostanze, definite “inquinanti eterni” per la loro persistenza nell’ambiente e nel corpo umano, includono il Pfoa, dichiarato cancerogeno per l’uomo.

La sentenza

Le condanne inflitte sono state severe, superiori a quelle richieste dall’accusa, variando dai due anni e otto mesi fino a 17 anni e mezzo di reclusione, per un totale di 141 anni di carcere. Quattro imputati sono stati assolti. Sono stati condannati i dirigenti di Mitsubishi Corporation, proprietaria dell’impianto tra il 1998 e il 2009: 11 anni per Maki Hosoda, business manager tra il 2002 e il 2008; 16 anni di reclusione per Naoyuki Kimura, presidente o consigliere Miteni dal 2003 al 2009; 16 anni per Yuji Suetsune, 64 anni, presidente Miteni dal 2003 al 2006. Poi, quelli del fondo di investimento International chemical investors group (Icig): sette anni di reclusione per Hendrik Schnitzer, amministratore delegato dal 2009 al 2018; 17 anni per Alexander Nicolaas Smit, 82 anni, olandese residente in Francia, presidente Miteni dal 2009 al 2012; 17 anni anche per l’irlandese Brian Anthony Mc Glynn, residente a Milano, presidente o amministratore delegato Miteni dal 2007 al 2018, 4 anni 6 mesi per Martin Leitgeb, presidente Miteni dal 2017 al fallimento; 17 anni per Luigi Guarracino, direttore operativo dello stabilimento veneto tra il 2009 e il 2012, e suo amministratore delegato fino al 2015: erano accusati di reati gravi, tra cui avvelenamento delle acque, disastro ambientale innominato, gestione di rifiuti non autorizzata, inquinamento ambientale e reati fallimentari.

La sentenza ha anche previsto risarcimenti per oltre 300 parti civili, pari a 75 milioni di euro complessivi. Il risarcimento più consistente è stato assegnato al Ministero dell’Ambiente (56 milioni di euro) e alla Regione Veneto (6,5 milioni di euro), nonostante quest’ultima sia stata oggetto di critiche per la sua inerzia. Le persone fisiche, le cui condizioni di salute sono state più compromesse, hanno ricevuto circa 15mila euro a testa.

Il valore giuridico e la vittoria della società civile

Questa decisione è di fondamentale importanza perché, per la prima volta, un tribunale italiano ha riconosciuto in modo chiaro la responsabilità penale di chi inquina, applicando il principio “chi inquina, paga” del Testo Unico Ambientale. Se confermata nei successivi gradi di giudizio, la sentenza stabilirà un precedente cruciale per futuri casi di contaminazione industriale, marcando un punto di svolta nella tutela ambientale e della salute pubblica.

Un aspetto chiave è il riconoscimento del carattere intenzionale dei reati di avvelenamento delle acque e disastro ambientale, implicando che i responsabili fossero pienamente consapevoli delle conseguenze dannose delle loro azioni.

La sentenza rappresenta anche una grande vittoria per la società civile. Il processo è nato dall’esposto di Medicina Democratica (Marco Caldiroli e Maria Chiara Rodeghiero), con il sostegno del Movimento 5 Stelle e soprattutto del movimento ‘No Pfras’, che include gruppi spontanei come le ‘Mamme No Pfas’. Michela Piccoli, portavoce delle Mamme No Pfas, ha sottolineato l’importanza del verdetto come un “monito: chi inquina sappia che da oggi la giustizia può raggiungerlo. E lo condanna”.

La vicenda dei Pfas in Veneto è emblematicamente descritta come una storia di sviluppo industriale senza regole, controlli assenti e cittadini ignari che per decenni hanno bevuto acqua contaminata.

L’azienda Miteni e l’impatto umano sull’ambiente

A ricostruire la storia dell’azienda è un’inchiesta di Irpimedia, secondo la quale la Miteni, nata nel 1965 come RiMar (Ricerche Marzotto), ha prodotto per anni Pfoa, una delle molecole più pericolose della famiglia Pfas. Già negli anni ’70, la fabbrica rilasciava circa 250 tonnellate annue di queste sostanze senza alcuna norma precisa sullo smaltimento, trasformando il torrente Agno in un vettore di inquinamento che ha interessato un’area di circa 180 chilometri quadrati tra le province di Vicenza, Verona e Padova.

I primi segnali del disastro risalgono al ‘66, con una dispersione di acido fluoridrico. Negli anni successivi, furono sepolti illegalmente fusti di Pfas lungo l’argine del fiume Poscola, ritrovati solo nel 2018. All’inizio degli anni 2000, il fiume Fratta, che raccoglie le acque dell’Agno, riceveva 500 grammi di inquinanti al giorno. Solo nel 2006, dopo studi americani che collegavano i Pfas a gravi patologie, fu installata una barriera idraulica, ma era già troppo tardi per fermare la diffusione.

Le analisi sui lavoratori della Miteni rilevarono concentrazioni record di Pfoa nel sangue, fino a 90.000 ng/l, contro un limite di sicurezza massimo di 8 ng/l. Queste persone mostravano un aumento del 43% delle probabilità di morte per patologie linfatiche. Nel 2013, il Consiglio nazionale delle ricerche identificò la Miteni come la fonte della contaminazione, portando la Regione Veneto ad avviare controlli ematici sulla popolazione che, nel 2016, rivelarono risultati allarmanti, specialmente nei giovani.

È in questo contesto che nasce il comitato civico Mamme No Pfas, che diede il via a una mobilitazione massiva. Grazie alla loro pressione, nel 2017 fu presentato un esposto alla Procura, corredato da perizie sanitarie e ambientali, che diede il via formale alle indagini. È stato accertato che lo sversamento della Miteni ha contaminato l’acqua potabile e il sangue di oltre 300mila cittadini in tre province venete, causando almeno 4.000 morti in trent’anni, ovvero un decesso in più ogni tre giorni.

Le prove e l’insabbiamento

Il processo Miteni, il primo maxi-processo ambientale nazionale con oltre 300 parti civili e 134 udienze, ha svelato una verità inquietante. La difesa degli imputati ha sostenuto la mancanza di leggi specifiche sui Pfas all’epoca dei fatti e l’assenza di evidenze scientifiche consolidate fino al 2013. Tuttavia, i pubblici ministeri hanno replicato che già nel 2006 una direttiva europea indicava il Pfos come sostanza altamente tossica, bioaccumulabile e persistente.

Il dibattimento ha dimostrato che l’azienda era consapevole della gravità della situazione già dagli anni Novanta, ma i suoi amministratori non intervennero. La svolta investigativa è arrivata grazie al Nucleo Operativo Ecologico (Noe) dei Carabinieri di Treviso, che ha ritrovato documenti interni del 1994 commissionati da Mitsubishi, i quali dimostravano che il terreno sotto lo stabilimento era già saturo di inquinanti. È emerso inoltre che nel 2008, quando dei consulenti incaricati rilevarono livelli di Pfas oltre 400 volte superiori ai limiti di sicurezza, la Miteni chiese di “distruggere i risultati delle analisi sulla presenza di Pfoa nell’acqua di falda”.

Pietro Comba, ex responsabile del Dipartimento di epidemiologia ambientale dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), ha rivelato che nel 2016 aveva predisposto uno studio sui Pfas, ma la Regione Veneto non firmò mai l’accordo per “valutazioni economico-finanziarie“, pur avendo ricevuto un risarcimento di 6,5 milioni di euro. Nonostante la condanna, la storia della Miteni non è finita: lo stabilimento è stato chiuso dopo il fallimento del 2018, e nel luglio 2019, l’impianto più inquinante è stato trasferito in India, dove la produzione di sostanze vietate in Europa è ancora consentita da Viva Life Sciences per settori come quello farmaceutico e aeronautico.

La vendita e il futuro dell’azienda

Il trasferimento dell’impianto in India ha spinto attivisti come Alberto Peruffo a recarsi nel paese per sensibilizzare sulla pericolosità dei Pfas e “attivare attivisti”, affinché la storia non si ripeta, evidenziando come “una delle strategie solide del capitalismo e di chi distrugge l’ambiente è spostare il problema”.

Dopo la sentenza, le associazioni ambientaliste, tra cui Legambiente e Greenpeace, chiedono di procedere rapidamente con la bonifica del territorio, che non è mai iniziata.

Solo il 9 giugno 2024, dopo oltre dieci anni, la Regione Veneto ha dato il via libera al documento di Analisi del Rischio (Adr), il cui costo è stimato in 180 milioni di euro. Tuttavia, per le acque di falda inquinate non è stato ancora attivato alcun percorso. Molti chiedono decisioni politiche e normative coraggiose, in primis una legge nazionale che vieti la produzione e l’utilizzo di tutta la famiglia dei Pfas.

Il problema sanitario non è ancora stato risolto: i Pfas si accumulano nel sangue e negli organi e vengono smaltiti dal corpo umano in oltre dieci anni. I cittadini veneti con valori elevati di queste sostanze dovrebbero essere presi in carico dal Sistema Sanitario Nazionale con percorsi di screening specifici e continui per individuare per tempo eventuali patologie.

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