Mai sentito parlare di “plastica vivente”? Si tratta dell’ultima scoperta in campo ambientale, una nuova speranza nella lotta, sempre più impari, al cambiamento climatico.
La novità arriva dalla Cina, dove un team di scienziati ha recentemente sviluppato una nuova tipologia di plastica, in grado di decomporsi autonomamente e nel giro di un solo mese grazie all’azione di alcuni batteri. Questa innovazione, per ora testata solo in laboratorio, potrebbe segnare un punto di svolta per la produzione e lo smaltimento dei polimeri, offrendo una soluzione più sostenibile rispetto alle plastiche tradizionali.
Come funziona la plastica vivente
La caratteristica principale della plastica vivente è la sua capacità di degradarsi completamente entro un mese in un sistema di compostaggio, un tempo significativamente inferiore rispetto ai 55 giorni richiesti dalle plastiche biodegradabili più avanzate attualmente disponibili. La chiave di questa innovazione risiede nell’integrazione di spore batteriche ingegnerizzate all’interno della plastica stessa che, una volta che la plastica inizia a degradarsi, liberano enzimi capaci di accelerare il processo di decomposizione.
A sviluppare questo materiale dal grande potenziale è stato un team di ricerca cinese guidato da scienziati dell’Istituto di biologia sintetica e dell’Istituto di tecnologia avanzata di Shenzhen legati all’Accademia cinese delle scienze, che hanno collaborato con i colleghi del Dipartimento di Ingegneria Meccanica ed Energetica dell’Università Meridionale della Scienza e della Tecnologia e del Centro dei polimeri in Medicina. I ricercatori, coordinati dal professor Chenwang Tang, hanno realizzato la plastica vivente grazie alla scoperta di batteri in grado di degradare attivamente i polimeri.
Il team di ricerca, guidato dal professor Chenwang Tang, docente presso il Laboratorio di biologia sintetica quantitativa dell’ateneo cinese, ha utilizzato batteri scoperti nel 2016 in un centro di riciclaggio giapponese. Questi batteri, in grado di degradare i polimeri plastici, sono stati modificati geneticamente per produrre enzimi che accelerano la decomposizione della plastica. Quella scoperta ha ispirato gli studiosi in tutto il mondo, incentivando la produzione di enzimi sintetici in grado di mangiare i detriti della plastica.
La particolarità dello studio cinese è l’integrazione delle spore di questi batteri nella “plastica vivente”. In particolare, il gene per un enzima lipasi del batterio Burkholderia cepacia è stato incorporato nel DNA di un altro microbo, il Bacillus subtilis, noto per la sua resistenza a condizioni estreme come alte temperature e pressioni.
Prove di robustezza e applicazioni future
Le sperimentazioni hanno dimostrato che la plastica vivente non solo si degrada rapidamente, ma mantiene anche la sua stabilità e resistenza in condizioni estreme. Può sopportare alte temperature e pressioni, rimanendo stabile in soluzioni gassate per oltre 60 giorni. Questo rende la plastica vivente un materiale promettente per l’imballaggio, con la capacità di disintegrarsi completamente senza necessità di ulteriori interventi chimici.
Nonostante la tecnologia sia ancora alla fase di laboratorio, il potenziale della plastica vivente è enorme. Potrebbe contribuire in modo significativo alla riduzione dell’inquinamento da plastica, un problema che ha raggiunto livelli allarmanti a livello globale.
L’impatto ambientale della plastica
Negli ultimi decenni, la plastica è diventata uno dei materiali più utilizzati al mondo, grazie alla sua versatilità e al basso costo di produzione. Tuttavia, l’uso massiccio di questo materiale ha avuto conseguenze disastrose sull’ambiente. Si stima che ogni anno vengano prodotte oltre 400 milioni di tonnellate di plastica a livello globale, di cui circa il 40% viene utilizzato per imballaggi, spesso monouso, anche se ora le istituzioni come l’Unione europea si sono attrezzate per ridurne drasticamente l’utilizzo. Questi prodotti finiscono rapidamente nei rifiuti, contribuendo a una crisi ambientale di dimensioni enormi.
Le microplastiche
Una delle problematiche più gravi riguarda l’accumulo di plastica negli oceani. Ogni anno, tra 8 e 12 milioni di tonnellate di plastica entrano negli oceani, causando danni irreparabili agli ecosistemi marini. La plastica in mare si degrada in minuscole particelle note come microplastiche, che sono praticamente impossibili da rimuovere una volta disperse nell’ambiente.
Queste particelle, che possono essere ingerite da pesci, uccelli marini e altri animali, entrano nella catena alimentare, arrivando potenzialmente fino agli esseri umani. Le microplastiche sono state trovate in luoghi remoti come l’Artico e in creature che abitano le profondità oceaniche.
Ma non c’è bisogno di andare in profondità per trovare le microplastiche, su cui è arrivata una importante stretta dell’Ue: un recente studio condotto in New Mexico evidenzia che le microplastiche sono anche nel nostro cervello, l’organo che ha mostrato le maggiori concentrazioni di nano e microplastiche (MNP) rispetto a fegato e reni, con il polietilene come polimero predominante. Dallo studio emerge che le MNP sembrano “preferire” il cervello umano, con concentrazioni in aumento nel corso degli anni (per approfondire: “Inquinamento invisibile: microplastiche trovate anche nel cervello umano”)
La plastica e l’effetto serra
La produzione di plastica contribuisce significativamente alle emissioni di gas serra. Durante il processo di produzione e smaltimento della plastica, vengono rilasciate nell’atmosfera grandi quantità di CO2 e altri gas, aggravando la crisi climatica. Inoltre, molte plastiche contengono sostanze chimiche tossiche che possono avere effetti negativi sulla salute umana e sugli ecosistemi naturali.
Un altro aspetto preoccupante riguarda le microfibre, un tipo di microplastica che si stacca dai tessuti sintetici durante il lavaggio. Una singola lavatrice può rilasciare milioni di microfibre, che finiscono poi nelle acque reflue e, successivamente, negli oceani. Queste microfibre rappresentano una forma subdola di inquinamento, poiché sono troppo piccole per essere filtrate efficacemente nei processi di trattamento delle acque.
Come ridurre l’inquinamento da plastica
Come sempre quando si parla di inquinamento ambientale ci sono solo due vie per migliorare la situazione: ridurre i consumi, migliorare le tecnologie. Vanno percorse entrambe.
La prima via richiede un cambiamento radicale nei modelli di consumo e produzione, supportato da politiche governative che incentivino l’uso di materiali alternativi e la gestione responsabile dei rifiuti. La seconda passa da incentivi pubblici, privati e dalla competenza dei ricercatori di tutto il mondo, in grado di offrire soluzioni altrimenti impensabili. La strada verso l’innovazione è tortuosa e piena di ostacoli.
Lo dimostra bene, la rinuncia di Lego ad utilizzare plastica riciclata per costruire i suoi famosi mattoncini, avvenuta ormai un anno fa. Nel giugno 2021 l’azienda danese, leader mondiale nella produzione di giocattoli, aveva annunciato di voler produrre i suoi mattoncini colorati usando la plastica delle bottiglie. Da quel momento, Lego ha investito 400 milioni di dollari nel progetto di ricerca puntando sul Pet (polietilentereftalato) riciclato anche noto come Rpet (Recycled Pet). Fino alla triste constatazione: non esiste “un materiale magico” che dia le prestazioni sperate, come ha dichiarato Christiansen al Financial Times.
Ma la ricerca non si ferma mai e ora qualcosa potrebbe cambiare.
I test di laboratorio hanno dimostrato la possibilità di creare bottigliette e contenitori con la “plastica vivente” raccogliendo la soddisfazione dei ricercatori e una nuova speranza per il pianeta: “Questo studio presenta un metodo per fabbricare plastiche ecologiche in grado di funzionare quando le spore sono latenti e di decomporsi quando vengono attivate, gettando luce sullo sviluppo di materiali sostenibili”, hanno dichiarato il professor Tang e i suoi colleghi nell’abstract dello studio.