C’è un dato che da solo sintetizza l’accelerazione della crisi climatica: nel 2023 il 96% della superficie oceanica globale è stata colpita da ondate di calore marino. Il picco non è stato un’anomalia estemporanea. Il 2024, infatti, ha confermato, e in alcuni casi superato, i livelli record raggiunti l’anno precedente. A dirlo sono i dataset integrati di Copernicus, NOAA, Météo-France e i rilevamenti in situ effettuati da progetti di monitoraggio avanzati come “Mare Caldo” di Greenpeace Italia. L’oceano si sta scaldando in superficie, ma anche a decine di metri di profondità. E l’impatto su ecosistemi, pesca, stabilità climatica e assetti socioeconomici è ormai un fatto tecnico, non un’ipotesi.
Il salto termico osservato a partire dal 2023 è talmente anomalo da non poter essere spiegato con i soli parametri già noti: l’effetto serra, l’El Niño, la variabilità stagionale. Per questo un team di scienziati internazionali ha ipotizzato che il sistema oceanico globale possa aver superato un punto di non ritorno. Un “nuovo stato termico” più caldo e più instabile, che secondo le osservazioni della Southern University of Science and Technology, in Cina, sta accumulando calore a un ritmo esponenziale. Un trend incompatibile con le previsioni dei modelli climatici attuali. E potenzialmente ingestibile se non si interviene su più fronti, e subito.
Un riscaldamento senza precedenti
Tra il 2023 e il 2025 gli oceani del pianeta hanno mostrato segni evidenti di un’accelerazione termica fuori scala. Le ondate di calore marino hanno colpito praticamente ovunque, per durata e intensità mai registrate prima. Le rilevazioni indicano che nel 2023 le acque superficiali del Nord Atlantico e del Pacifico sud-occidentale hanno toccato temperature record. E il 2024 ha aggravato il quadro, con valori ancora superiori nelle medie annuali globali.
Uno studio condotto da scienziati di Cina, Stati Uniti e Thailandia ha individuato tre cause principali:
- una riduzione persistente della copertura nuvolosa, che ha aumentato l’irraggiamento solare sulla superficie marina;
- un indebolimento dei venti, che ha ridotto il raffreddamento per evaporazione;
- cambiamenti nei principali flussi di corrente oceanica, che hanno alterato la distribuzione termica verticale e orizzontale.
L’effetto combinato ha amplificato l’assorbimento di calore in modo imprevisto, compromettendo l’affidabilità dei modelli climatici utilizzati fino ad oggi.
La parte più preoccupante è che questo mutamento potrebbe non essere transitorio. Una dinamica incompatibile con l’ipotesi di un ritorno a condizioni precedenti. Alcuni ricercatori invitano alla cautela, ma tutti concordano su un punto: serve un’immediata intensificazione del monitoraggio, perché quello che stiamo osservando potrebbe essere l’inizio di una nuova fase climatica globale, e non un picco temporaneo.
Il Mediterraneo non è più un mare temperato
Se c’è un bacino che più di altri sta offrendo una dimostrazione in tempo reale della trasformazione in atto, è il Mediterraneo. Nel 2024 ha raggiunto la temperatura media annuale più elevata degli ultimi 43 anni: 21,16 °C. Le anomalie termiche stagionali – rilevate sia da satellite sia in situ – hanno superato in più casi i +3,5 °C. È quanto emerge dai dati raccolti dal progetto “Mare Caldo” di Greenpeace Italia, attivo in 12 aree marine, di cui 11 protette. A colpire non è solo l’estensione dei fenomeni, ma la loro persistenza: in località come l’Asinara sono state registrate 14 ondate di calore marino in un solo anno, mentre nelle Cinque Terre, durante l’estate, si è toccato un picco di +3,65 °C.
Ma il calore non resta in superficie. I sensori posizionati lungo la colonna d’acqua hanno registrato anomalie fino a 40 metri di profondità, alterando parametri vitali per le comunità di scogliera. Le gorgonie – Paramuricea clavata ed Eunicella cavolini – risultano tra le specie più colpite: a Portofino, il 94% delle colonie osservate a 25 metri mostra segni di necrosi. A Tavolara e Ventotene il corallo Cladocora caespitosa è soggetto a fenomeni di sbiancamento, con perdita della simbiosi algale. Secondo Valentina Di Miccoli, campaigner mare di Greenpeace Italia, “il nostro mare è ricco di biodiversità, ma rischiamo di perdere questo straordinario patrimonio naturale se non estendiamo la superficie di mare protetta e non riduciamo le emissioni di gas serra”.
Nel 2024 il progetto ha documentato anche la diffusione crescente di specie aliene e termofile. L’alga Caulerpa cylindracea è ormai presente in tutte le aree monitorate, mentre tra i pesci risultano sempre più frequenti il pesce pappagallo, il barracuda mediterraneo e la donzella pavonina, tutte specie che prosperano in acque calde e che alterano l’equilibrio delle reti trofiche locali.
Leggi anche: Pesci pagliaccio in ‘ritirata’, si accorciano per sfuggire al riscaldamento globale
Dalla crisi della biodiversità agli effetti sul clima terrestre
Il riscaldamento degli oceani non si limita a danneggiare le specie marine. Ha effetti sistemici sul funzionamento climatico globale. Le masse d’acqua assorbono circa il 90% del calore in eccesso generato dalle emissioni di gas serra. Quando la loro capacità tampone si riduce, o cambia di segno, l’impatto sulla temperatura atmosferica diventa immediato. Inoltre, un oceano più caldo ostacola la formazione di brezze fresche, alterando le dinamiche di circolazione tra mare e terra. L’effetto combinato è un aumento delle ondate di calore, dei periodi siccitosi e degli eventi meteorologici estremi.
La tempesta Daniel, che nel 2023 ha devastato la Libia causando quasi 6.000 morti, è un caso emblematico. Secondo gli studi di attribuzione pubblicati dopo l’evento, l’elevata temperatura del Mediterraneo ha reso la tempesta “50 volte più probabile e il 50% più intensa”. Eventi simili sono destinati a moltiplicarsi se l’oceano entra in una fase climatica calda persistente. In parallelo, gli effetti sul ciclo del carbonio rischiano di indebolire l’intero sistema di regolazione climatica terrestre. Le barriere coralline, infatti, svolgono un ruolo cruciale nell’assorbimento della Co₂. Il loro collasso riduce la capacità degli oceani di fungere da sink di carbonio, accelerando l’aumento della concentrazione atmosferica.
La perdita di biodiversità marina ha anche un impatto diretto sulle attività umane. La pesca costiera, l’acquacoltura e il turismo marino dipendono da ecosistemi stabili e produttivi. Il progressivo spostamento delle specie verso nord, le morie improvvise, la proliferazione di alghe tossiche o mucillagini, sono tutte conseguenze osservate negli ultimi tre anni. In Italia, l’Ispra ha registrato un aumento delle segnalazioni di specie tossiche, fioriture algali anomale e infezioni di organismi patogeni in acque balneabili. Si tratta di segnali che, messi insieme, delineano un trend di deterioramento che va ben oltre la biologia marina.