Inquinamento, suoli devastati e clima in crisi: l’altra faccia della guerra

Dall’Ucraina a Gaza, dalla Siria allo Yemen fino al Sudan: macerie, acque reflue e residui di munizioni cambiano suoli, falde e clima
9 Ottobre 2025
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Guerra Soldatini

Ci sono guerre che continuano anche quando smettono di sparare. Restano sotto la superficie, nei terreni contaminati, nei fiumi torbidi, nell’aria che diventa tossica. Ogni esplosione cambia la chimica di un luogo: il suolo assorbe metalli, l’acqua si riempie di residui, l’atmosfera si satura di particolato e gas. È la parte della guerra che non si vede e che nessun trattato di pace riesce a chiudere. Dall’Ucraina alla Siria, da Gaza allo Yemen, fino al Sudan, le tracce ambientali dei conflitti formano una mappa parallela fatta di scorie e di mutamenti climatici, un fronte lento e persistente che attraversa generazioni.

Terra devastata

Ogni bombardamento lascia un segno che non si cancella. Nel terreno restano frammenti di ordigni, residui di combustibili, polveri di materiali edili. In Ucraina, il Conflict and Environment Observatory stima che circa il 30% del territorio sia interessato da impatti ambientali legati alla guerra, con criticità che toccano anche aree agricole e forestali. In più punti sono state rilevate elevate concentrazioni di metalli e composti associati agli esplosivi, con rischi per fertilità dei suoli e falde.

In Siria, dopo oltre un decennio di conflitto, rapporti di agenzie Onu e partner regionali documentano perdite estese di superfici agricole nel nord del Paese (deforestazione, incendi, mine, sversamenti), insieme a degrado fisico e salinizzazione dei terreni.

A Gaza, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente quantifica 61 milioni di tonnellate di macerie (settembre 2025) e stima che circa il 15% del detrito sia ad alto rischio di contaminazione (amianto, scarti industriali, metalli pesanti) se non gestito con flussi separati. L’accumulo e la frantumazione dei detriti alterano il suolo, peggiorano drenaggio e temperatura superficiale e complicano ogni ipotesi di coltivazione.

In Iraq, l’eredità delle guerre del Golfo comprende l’uso di uranio impoverito: stime indipendenti indicano almeno 440 tonnellate impiegate tra 1991 e 2003; diversi siti richiedono tuttora monitoraggi e interventi.

Nel Sudan e nel Sahel, letteratura recente descrive un’accelerazione dei processi di desertificazione, con forti oscillazioni colturali nelle annate di siccità. I conflitti interrompono canali, prosciugano manutenzioni e amplificano l’erosione eolica.

Fiumi contaminati e falde che collassano

In ogni guerra, l’acqua diventa insieme bersaglio e vittima collaterale. Condotte, stazioni di pompaggio e depuratori saltano; i reflui finiscono nei corsi d’acqua; le falde si caricano di nitrati, idrocarburi e residui di esplosivi. In Ucraina, documenti Unicef e valutazioni Rapid Damage and Needs Assessment (Rdna) indicano danni estesi alle reti idriche (nell’ordine di decine di migliaia di chilometri di condotte) e miliardi di dollari di danni al settore, con interruzioni prolungate del servizio idrico in più regioni.

In Siria e Yemen, il collasso dei sistemi fognari e di trattamento ha alimentato epidemie idrotrasmesse (colera in primis) documentate dall’Oms negli anni recenti, con impatti maggiori su bambini e anziani.  

A Gaza, gran parte degli impianti di trattamento si è fermata per mancanza di energia e danneggiamenti: circa 130.000 m³/giorno di acque reflue non trattate finiscono in mare, mentre le falde costiere salinizzate non sono più utilizzabili per uso potabile o irriguo. “Porre fine alla sofferenza deve essere la priorità… Ripristinare i sistemi di acqua dolce e rimuovere le macerie è urgente per salvare vite”, ha dichiarato Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente.

In Iraq, conflitti e gestione critica hanno alterato i flussi del Tigri e dell’Eufrate; in assenza di una percentuale univoca e aggiornata, è corretto parlare di riduzione significativa della portata e di qualità compromessa in più tratte. Nel Sudan, fuoriuscite e residui di impianti petroliferi abbandonati hanno contaminato tratti del Nilo Bianco, con effetti a catena su pesca e irrigazione.

Secondo il World Water Development Report 2024 (Unesco/UN-Water), le tensioni sull’acqua stanno crescendo e si intrecciano con instabilità e violenza: dove la scarsità è cronica, il rischio di conflitto e sabotaggi alle infrastrutture aumenta.

L’impronta invisibile dei conflitti

Gli eserciti sono anche grandi emettitori. Analisi Climate Focus stimano in almeno 100 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente le emissioni dei primi 7 mesi di guerra in Ucraina e almeno 120 milioni nel primo anno — numeri che includono combustibili, incendi, distruzione di infrastrutture e perdite di metano, e che potrebbero essere sottostimate. Aggiornamenti successivi indicano impatti ancora più elevati considerando anche gli incendi boschivi del 2024.

A Gaza, l’Unep segnala che l’entità dei danni ambientali (acque reflue, macerie e residui di munizioni) ha impatti climatici indiretti rilevanti e che la ricostruzione rischia di generare un picco emissivo se non impostata con criteri “carbon-smart” (a basse emissioni lungo il ciclo di vita).

A livello globale, l’Osservatorio sui conflitti e l’ambiente (Ceobs) e Scientists for Global Responsibility stimano che le emissioni dei militari rappresentino circa il 5,5 % del totale mondiale di gas serra: se fossero un Paese, i militari sarebbero il quarto emettitore.

Il nesso conflitti-clima non è unidirezionale. Studi sul Fertile Crescent collegano la siccità del 2006–2010 in Siria a una profonda crisi agricola e a pressioni migratorie interne; esiste anche letteratura che invita alla prudenza nel pesare la componente climatica rispetto ad altri fattori socio-politici.

L’eredità tossica

Quando le armi tacciono, restano contaminanti e malattie. La letteratura medica e ambientale documenta un aumento significativo delle patologie respiratorie e delle malattie legate all’esposizione a metalli pesanti e idrocarburi tra le popolazioni che vivono nelle aree di conflitto: l’intensità varia da teatro a teatro, ma lo schema ricorrente include disturbi cardiopolmonari in aree industriali bombardate, infezioni legate ad acqua contaminata e biomarcatori di esposizione ai metalli in campioni umani prelevati in siti ad alto impatto.

Sul piano economico, gli interventi ambientali post-conflitto diventano spesso una seconda ricostruzione: in Ucraina, la gestione delle macerie e la neutralizzazione degli ordigni inesplosi richiedono già investimenti nell’ordine dei miliardi; in Iraq, il risanamento dei siti contaminati da uranio impoverito comporterà spese pluriennali e tempi di recupero che si misurano in generazioni.

L’effetto più profondo è sociale. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, una quota consistente degli sfollati interni fugge non solo per la violenza, ma per la degradazione ambientale: campi contaminati, mancanza d’acqua, aria irrespirabile. Le Nazioni Unite stimano che entro il 2050 potrebbero esserci oltre 200 milioni di migranti climatici, molti provenienti da regioni segnate da guerre.

Le evidenze lo confermano: la guerra accelera il degrado ambientale più di qualunque altra crisi umana. Il fronte può tacere, ma i residui restano — nelle falde, nei polmoni e nelle generazioni che verranno.

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