Oggi il mondo produce abbastanza cibo per tutti, ma centinaia di milioni di persone continuano a soffrire la fame, mentre tonnellate di alimenti finiscono ogni giorno nella spazzatura: è un paradosso che fotografa il nostro tempo meglio di qualunque statistica. È dentro questo squilibrio che si colloca la Giornata mondiale dell’alimentazione 2025, che domani – 16 ottobre – celebra anche gli ottant’anni della Fao, con un messaggio che non lascia spazio alle ambiguità: “Mano nella mano per un cibo migliore e un futuro migliore”.
La sopravvivenza alimentare del pianeta non è più una questione di produzione, ma di distribuzione, accesso, giustizia e sostenibilità: un concetto semplice ma radicale. Gli ultimi dati Fao stimano 673 milioni di persone che convivono con la fame, mentre 1,3 miliardi di tonnellate di cibo vengono perse o sprecate ogni anno lungo la filiera globale. Lo spreco si somma alle disuguaglianze, in un sistema che vede abbondanza e assenza coesistere spesso fianco a fianco: scaffali pieni e piatti vuoti.
Le cause sono intrecciate. Conflitti, eventi climatici estremi, shock economici e disuguaglianze crescenti stanno logorando le basi stesse dei sistemi agroalimentari: la terra, l’acqua, la biodiversità. L’agricoltura, da attività che garantiva vita, è diventata anche una delle principali fonti di emissioni di gas serra: secondo il rapporto Fao-Ocse “Prospettive agricole 2025-2034”, oltre un terzo delle emissioni globali (17.300 TgCO₂eq/anno) deriva dalla produzione di cibo, e più della metà di queste emissioni viene dagli alimenti di origine animale.
Eppure, la soluzione è già scritta nella diagnosi: trasformare i sistemi agroalimentari. Renderli capaci di produrre di più con meno, di usare tecnologie sostenibili e modelli alimentari compatibili con il pianeta. Lo ha ribadito il direttore generale della Fao, Qu Dongyu: “Le azioni che intraprendiamo oggi determineranno il futuro. Dobbiamo produrre di più con meno. Lavoriamo insieme per un domani più equo e inclusivo”.
Il cibo che consuma il pianeta
I sistemi agroalimentari stanno diventando il punto di rottura tra economia e ambiente. La domanda globale di cibo continua a crescere, spinta da una popolazione in aumento e da diete più ricche di proteine animali, soprattutto nei paesi a reddito medio. Secondo l’Ocse e la Fao, la produzione agricola e ittica aumenterà del 14% entro il 2034, ma a un prezzo ambientale altissimo.
L’impatto è già visibile: terreni impoveriti, risorse idriche sotto pressione, perdita di habitat e biodiversità. I cicli agricoli si fanno più instabili, mentre il cambiamento climatico moltiplica siccità e alluvioni. Il risultato è un sistema che reagisce con lentezza e produce squilibri a catena. Quando una crisi – climatica, politica o economica – colpisce una regione, le ripercussioni si estendono ai mercati globali, fino ai prezzi sugli scaffali dei supermercati.
Il modello intensivo che ha sostenuto la crescita del Novecento non regge più. È un sistema “a rendimento decrescente”, in cui ogni tonnellata prodotta costa di più in termini di acqua, suolo e emissioni. Ma non si tratta solo di numeri: dietro la pressione sulle risorse c’è una crisi sociale globale. I redditi agricoli restano bassi, milioni di lavoratori rurali vivono in povertà, mentre le grandi filiere agroindustriali concentrano profitti e potere decisionale.
Nel frattempo, le città diventano il nuovo epicentro della domanda alimentare. Popolazioni urbanizzate e stili di vita accelerati alimentano il consumo di prodotti trasformati, spesso ad alto contenuto calorico ma a basso valore nutrizionale. La sfida del futuro, dunque, è doppia: nutrire chi non ha abbastanza e correggere l’eccesso di chi ha troppo.
Come ricorda la presidente della Società Italiana di Nutrizione Umana (Sinu), Anna Tagliabue, “dobbiamo unire competenze scientifiche, responsabilità sociale e impegno educativo, investendo sulle nuove generazioni per garantire un futuro basato su scelte alimentari più consapevoli, sostenibili e salutari”. È la traduzione pratica del motto Fao: camminare insieme, mano nella mano – istituzioni, cittadini e filiere produttive – per una rivoluzione alimentare che non sia solo tecnologica ma culturale.
Fame e obesità, due facce della stessa emergenza
Nel 2025 la fame non è più l’unica forma di malnutrizione, e forse neppure la più diffusa. Il nuovo rapporto Unicef mostra un cambiamento di scala epocale: l’obesità infantile ha superato il sottopeso come forma prevalente di malnutrizione. Oggi riguarda un bambino su dieci, per un totale di 188 milioni di minori nel mondo.
La doppia faccia della crisi alimentare è questa: la denutrizione cronica convive con l’eccesso calorico, e la bilancia pende da entrambi i lati. La dieta globale si è uniformata intorno a pochi ingredienti – zuccheri, grassi raffinati, farine e carne – mentre vitamine, fibre e nutrienti protettivi sono sempre più assenti.
Le conseguenze sanitarie sono già visibili. Sovrappeso e obesità infantile sono associati a ipertensione, glicemia elevata, disturbi lipidici e aumento del rischio di diabete di tipo 2, ma anche a bassa autostima, ansia e depressione. E non si tratta solo di un problema individuale. Come spiega Francesca Scazzina, consigliera Sinu, “i genitori sopportano il peso emotivo e finanziario delle cure, mentre le economie affrontano costi sanitari in crescita e una produttività ridotta”.
In Italia, i dati del sistema di sorveglianza OKkio alla Salute mostrano un quadro preoccupante: il 19% dei bambini è in sovrappeso, il 10% obeso. Le abitudini alimentari peggiorano: l’11% salta la colazione, il 37% la consuma in modo inadeguato, mentre il 67% fa merende troppo abbondanti. Un quarto dei bambini non mangia frutta o verdura ogni giorno, e quasi la metà trascorre oltre due ore davanti a uno schermo.
A livello globale, la stessa distorsione produce effetti speculari. Da un lato, 733 milioni di persone sono denutrite; dall’altro, il consumo eccessivo e la cattiva alimentazione alimentano le malattie non trasmissibili, che oggi rappresentano la principale causa di morte nel mondo. In mezzo, la catena dello spreco: oltre un miliardo di tonnellate di cibo che scompaiono tra produzione e consumo.
Il peso dello spreco
Il Food Waste Index Report 2024 fotografa un’economia alimentare che perde pezzi a ogni passaggio: 1.052 milioni di tonnellate di rifiuti alimentari prodotti nel 2022, di cui circa il 60% nelle case. La media mondiale è di 132 chilogrammi pro capite all’anno. In Italia, il Waste Watcher stima uno spreco medio di 88 grammi al giorno per persona, un dato in leggera riduzione ma ancora alto se confrontato con il valore economico e ambientale del cibo sprecato.
Dietro queste cifre c’è una questione etica ed economica. Ogni prodotto buttato rappresenta energia, acqua e risorse sprecate, ma anche emissioni inutili di CO₂. Ridurre lo spreco è quindi una strategia climatica tanto quanto una scelta di coscienza. La Fao lo ricorda da anni: “Il cibo è troppo prezioso per finire nei rifiuti”.
Ma lo spreco si lega anche a un’altra forma di diseguaglianza meno visibile: l’insicurezza alimentare. In Italia, il Food Insecurity Experience Scale (FIES) ha raggiunto nei primi mesi del 2025 un valore di 13,95%, tra moderato e severo. Significa che una persona su sette incontra difficoltà nel garantire pasti adeguati e continui. È una percentuale alta per un Paese industrializzato, che rivela quanto la crisi economica e climatica stia ridisegnando la geografia della povertà alimentare.
In questo contesto, anche le scelte quotidiane dei consumatori diventano un atto politico. Mangiare meno carne, scegliere prodotti locali e di stagione, ridurre gli sprechi domestici non sono gesti simbolici: sono leve concrete per ridurre emissioni e disuguaglianze. Come sottolinea ancora Tagliabue, “la revisione dei Larn e la nuova piramide alimentare sono strumenti fondamentali per orientare le scelte verso modelli più moderni, sostenibili e plant-based, fondati su evidenze scientifiche e orientati al benessere delle persone e del pianeta”.
Cosa significa “trasformare i sistemi alimentari”
La Giornata mondiale dell’alimentazione di quest’anno non è solo una ricorrenza: segna anche gli 80 anni della Fao, nata nel 1945 con un obiettivo che resta ancora lontano, “porre fine alla fame nel mondo”. Ma l’orizzonte è cambiato: non basta più nutrire, bisogna farlo senza distruggere le basi ecologiche che rendono possibile la vita.
Per la Fao, la chiave è la cooperazione: “Hand in hand across borders, sectors, and generations”. Tradotto: lavorare insieme, oltre i confini, i comparti e le generazioni. La trasformazione degli agrofood systems richiede investimenti mirati, innovazione e un cambio di paradigma che coinvolga governi, imprese, agricoltori e cittadini.
Il concetto di “mano nella mano”è un metodo operativo. Significa collegare ricerca scientifica, educazione nutrizionale e politiche pubbliche, ma anche ascoltare chi produce e chi consuma. Significa ridurre le distanze tra il campo e la tavola, rendere più trasparenti le filiere, accorciare i passaggi che moltiplicano costi e sprechi.
È anche un richiamo alla responsabilità intergenerazionale. Le scelte alimentari di oggi plasmano il mondo di domani: la dieta di un bambino, la fertilità di un suolo, la resilienza di una comunità rurale. Non c’è sostenibilità senza equità, e non c’è equità senza accesso al cibo.
Come sintetizza la Fao, “le scelte che facciamo ogni giorno modellano il mondo in cui vivremo”. Dal piatto individuale alle politiche globali, ogni gesto alimentare è un atto politico, ambientale e sociale insieme.