Un anno fa, alla Cop29 di Baku, i negoziatori lasciarono l’Azerbaijan con una promessa rinviata: definire come finanziare la transizione climatica dei Paesi più vulnerabili. Dodici mesi dopo, la questione è ancora sul tavolo, più urgente e più ingombrante.
La Cop30, che si apre oggi nella città brasiliana di Belém, non è solo la prosecuzione di quel confronto: è il punto di stress massimo per un sistema multilaterale che sembra al limite della sua tenuta. Lula la chiama “la Cop della verità”. Per molti, è l’ultima chiamata prima del collasso del consenso climatico.
Pressione del tempo, con un decennio perso dietro a obiettivi mancati. Pressione economica, con la necessità di mobilitare almeno 1,3 trilioni di dollari l’anno per sostenere l’adattamento dei Paesi più vulnerabili. Pressione geopolitica, con l’assenza degli Stati Uniti e un multilateralismo che vacilla. E pressione sociale, con migliaia di attivisti, comunità indigene e organizzazioni pronte a ricordare che la crisi climatica non è più un argomento da conferenza, ma una condizione globale.
A Belém, al confine tra foresta e città, si tiene dunque il più grande processo politico del nostro tempo.
1. Atto I – Contro il sistema climatico
Mai, in trent’anni di vertici sul clima, il meccanismo del multilateralismo è apparso così vicino al punto di rottura. Il sistema che regola i negoziati tra oltre 190 Paesi — teoricamente paritari, in realtà divisi da fratture economiche e strategiche profonde — si trova davanti a un bivio: o dimostrare di poter ancora produrre decisioni comuni, o sancire la propria irrilevanza.
Dieci anni dopo l’Accordo di Parigi, la distanza tra impegni e risultati è diventata macroscopica. Quell’intesa, nel 2015, prevedeva di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Oggi siamo già oltre quella soglia nei mesi più caldi, e le proiezioni indicano un incremento di 2,5 gradi entro fine secolo. Gli attuali piani climatici nazionali porteranno a una riduzione delle emissioni del 10% rispetto ai livelli del 2010, contro il 60% necessario.
È lo scenario che il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha definito “una condanna scritta in siccità e villaggi sommersi”. La condanna, però, non è distribuita in modo uniforme. I Paesi più poveri — che contribuiscono in minima parte alle emissioni — sono quelli che pagano i costi maggiori. Secondo l’Unhcr, 117 milioni di persone sono oggi in fuga da guerre e disastri climatici; tre su quattro vivono in Stati ad alto rischio ambientale. Negli ultimi dieci anni, gli eventi estremi hanno causato 250 milioni di sfollati interni.
In questo quadro, la Cop30 si apre sotto un doppio segno. Da un lato, la speranza che Belém — città alle porte dell’Amazzonia, simbolo della biodiversità e delle sue ferite — possa restituire centralità al Sud del mondo. Dall’altro, il rischio concreto che il vertice diventi la scena di un collasso politico.
L’assenza degli Stati Uniti, decisa dal presidente Donald Trump, pesa come un macigno. Il capo della Casa Bianca, che ha già ritirato gli Usa dagli Accordi di Parigi, ha definito il cambiamento climatico “una grande truffa”. Nei giorni scorsi, Washington ha bloccato il voto sul piano di decarbonizzazione dei trasporti marittimi dell’International Maritime Organization, rinviandolo di un anno. Un segnale chiaro: gli Stati Uniti non solo disertano la CopP30, ma mettono in discussione l’intero impianto del multilateralismo.
A Belém si parla di cooperazione, ma l’atmosfera è quella di una causa in cui l’imputato principale è lo stesso sistema che tenta di giudicarsi.
2. Atto II – Contro i Paesi ricchi
Se c’è un filo conduttore tra i padiglioni del centro congressi di Belém, è la parola denaro. Dopo anni di promesse parzialmente mantenute, la questione finanziaria è tornata al centro. Nel 2009, a Copenaghen, i Paesi industrializzati avevano promesso 100 miliardi di dollari l’anno per sostenere l’adattamento climatico delle economie più vulnerabili. Quindici anni dopo, quella cifra non è mai stata raggiunta.
Secondo il Segretariato United Nations Framework Convention on Climate Change, le risorse effettivamente erogate non superano i 70 miliardi, spesso sotto forma di prestiti o progetti vincolati. Intanto, l’Africa e le isole del Pacifico chiedono cifre ben più alte: almeno 1,3 trilioni di dollari l’anno per colmare il divario. “La finanza climatica è la differenza tra sopravvivere e soccombere,” ha dichiarato Simon Stiell, segretario esecutivo dell’Onu per il clima.
In questo contesto, il Brasile tenta di proporsi come mediatore lanciando il Tropical Forest Forever Facility, un fondo internazionale da 125 miliardi di dollari destinato alla tutela delle foreste tropicali. L’obiettivo è rendere economicamente più conveniente la conservazione rispetto alla deforestazione: i Paesi che manterranno la copertura forestale sotto una certa soglia riceveranno pagamenti, quelli che la supereranno saranno penalizzati.
Lula ha definito l’iniziativa “la Cop della verità”: “Se la foresta in piedi vale più della terra rasa al suolo, avremo cambiato la matematica che guida la distruzione”. La Norvegia ha annunciato 3 miliardi di dollari in dieci anni; la Germania ha espresso l’intenzione di contribuire, la Cina ha aderito “in principio”, senza dettagli. Il totale finora raccolto non supera i 5,5 miliardi: una frazione minima dell’obiettivo.
Le delegazioni dei Paesi poveri parlano apertamente di “debito climatico”. I rappresentanti delle piccole nazioni insulari ricordano che “ogni grado di aumento cancella un’isola”. Eppure, nei documenti ufficiali, il linguaggio resta prudente: si parla di “nuove modalità di cooperazione”, non di obblighi.
Lula insiste perché questa sia la Cop dell’attuazione, non delle promesse. Ma i segnali non incoraggiano. Nelle sale plenarie, i negoziatori discutono di meccanismi di trasparenza e metriche di compensazione, mentre le agenzie di monitoraggio denunciano tagli ai fondi per la protezione forestale.
3. Atto III – Contro il Brasile
Belém è la città simbolo di un Paese che prova a mostrarsi come guida del Sud globale, ma che resta intrappolato nelle proprie contraddizioni. Il Brasile si presenta come portavoce delle foreste e della giustizia climatica, ma continua a espandere i confini dell’estrazione petrolifera e delle monoculture agricole.
A settembre, l’agenzia ambientale nazionale ha autorizzato Petrobras a condurre nuove esplorazioni nel delta amazzonico. La decisione è stata giustificata dal governo come misura di “sovranità energetica”. Le associazioni ambientaliste parlano invece di incoerenza: lo stesso esecutivo che ospita la Cop sul clima concede licenze petrolifere nella regione più sensibile del pianeta.
I dati dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali (INPE) confermano che la deforestazione è tornata a salire: +15% nei primi nove mesi del 2025. Gli incendi nel Mato Grosso e nel Rondônia hanno superato i livelli del 2023. Secondo gli scienziati brasiliani, la soglia di non ritorno — il 20% della superficie originaria distrutta — è ormai vicina. Oggi siamo al 18%.
Il ministero dell’Ambiente assicura che gli standard di tutela restano “i più rigorosi al mondo”. Ma le forze sul terreno raccontano altro: ispettori senza mezzi, fondi tagliati all’Istituto brasiliano per l’ambiente e le risorse naturali rinnovabili, operatori costretti a fermarsi per mancanza di carburante.
Il Brasile è un gigante ecologico ma anche economico, e le sue priorità restano condizionate da un Congresso dominato da lobby agricole e minerarie.
Lula parla di “transizione giusta”, ma non ha rinunciato al petrolio come base fiscale. “Il Brasile non può essere povero in nome dell’ambiente,” ha detto in un recente intervento.
Nell’arena globale, la sua posizione è quella di un leader pragmatico che cerca di bilanciare sviluppo e tutela. Ma nella pratica, il Paese ospitante della Cop30 incarna perfettamente il dilemma del XXI secolo: come guidare una transizione mentre si continua a trivellare.
4. Atto IV – Contro tutti
Alla vigilia dell’apertura del vertice, un convoglio fluviale ha raggiunto Belém dopo un viaggio di trenta giorni dalle Ande. A bordo della Yaku Mama — “Madre Acqua” — c’erano sessanta leader indigeni provenienti da Perù, Ecuador, Colombia e Brasile. Hanno attraversato fiumi, lagune e frontiere per portare un messaggio: la foresta non può essere salvata senza chi la abita.
“Non chiediamo carità né finanziamenti condizionati”, ha detto Lucia Ixchiu, leader K’iche’ del Guatemala. “Chiediamo di poter decidere come proteggere le nostre terre”. Durante il percorso, la delegazione ha organizzato assemblee, proiezioni, workshop comunitari. In Ecuador, ha celebrato un “funerale dei combustibili fossili”; in Brasile, ha documentato la contaminazione dei corsi d’acqua.
Secondo un rapporto di Earth Insight e della Global Alliance of Territorial Communities, il 17% delle aree gestite da comunità indigene in Amazzonia è oggi sotto pressione per concessioni industriali. Global Witness ha registrato 1.690 uccisioni o sparizioni di difensori ambientali dal 2012 al 2024.
Sonia Guajajara, ministra brasiliana dei Popoli Indigeni, ha chiesto che almeno il 20% dei fondi climatici globali sia gestito direttamente dalle comunità locali. “Difendere chi difende la foresta”, ha dichiarato, “è il primo passo per rendere credibile qualsiasi politica climatica”.
In parallelo, l’Università Federale del Pará ospita il Vertice dei Popoli, con 15.000 partecipanti e oltre 500 organizzazioni. È il ritorno della società civile dopo tre anni di Cop ospitate in Stati petroliferi. Manifestazioni, assemblee e dibattiti scandiscono l’inizio dei lavori ufficiali.
Belém diventa così il teatro di due vertici paralleli: quello formale, nei padiglioni climatizzati, e quello reale, tra i rappresentanti delle popolazioni che vivono gli effetti diretti del cambiamento climatico.
Le voci che arrivano dai fiumi e dalle periferie urbane parlano di giustizia, non di percentuali.
“Ogni decimo di grado ha un volto”, ha detto Olivia Bisa, leader del popolo Chapra in Perù. “Il clima non cambia da solo, cambia con le decisioni”.
La Cop30 nasce sotto pressione e da quella pressione non potrà sottrarsi. Il sistema climatico è incrinato, il multilateralismo vacilla, la finanza arranca, la foresta arretra. Ma nel caos di Belém, tra gli accordi provvisori e le promesse rinnovate, resta la percezione di un banco di prova decisivo.
Non è la conferenza di un nuovo trattato. È la verifica di tutti i precedenti. Il processo al clima è cominciato, e nessuno — né i governi, né le imprese, né i cittadini — può considerarsi fuori dall’aula.