L’ossessione globale per la cucina italiana sta raggiungendo un punto critico, tanto da minacciare l’autenticità delle città. Secondo un’inchiesta del New York Times (Nyt), l’Italia rischia di trasformarsi in una versione caricaturale e anacronistica di sé stessa.
Il quotidiano statunitense ha puntato i riflettori su Palermo, in Sicilia, dove l’espansione delle prelibatezze culinarie sembra inarrestabile. Lungo Via Maqueda, una singola strada, si accalcano ben 31 ristoranti. I tavoli a scacchi rossi e verdi sono invasi da arancine fritte, cannoli e, soprattutto, Aperol spritz fluorescenti.
Per molti, questa non è più vitalità, ma saturazione.
Overtourism culinario: tra tradizione e divieti
Di fronte a questa proliferazione, le autorità stanno correndo ai ripari. Il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, ha vietato l’apertura di nuove attività di ristorazione in Via Maqueda e nelle strade circostanti, ammettendo che “anche il sacro graal italiano del cibo ha raggiunto il suo punto di saturazione”.
Lagalla ha riassunto la situazione con un proverbio: “Troppo zucchero guasta il caffè”. Il centro storico di Palermo, ha insistito, “non deve trasformarsi in un villaggio alimentare”. Ma le preoccupazioni non sono solo locali. Città come Bologna, Roma, Napoli e Torino si stanno trasformando in quelli che appaiono come “interminabili ristoranti all’aperto”. Questi locali servono “carbonara in padelle Instagrammabili” e spesso presentano donne che simulano la preparazione delle tagliatelle dietro le vetrine, in una sorta di rievocazione “da zoo delle nonne italiane”, sono diventati la normalità.
Anche a Firenze, le autorità hanno preso provvedimenti, vietando l’apertura di nuovi ristoranti in oltre 50 strade.
L’impatto sui cittadini (non più) residenti
Il fenomeno non è un semplice problema estetico, ma una questione che le autorità locali trattano con serietà. L’aumento del turismo ha trasformato i centri storici, che, pur essendo diventati più vivaci, rischiano di svuotarsi dall’interno.
I dati sono chiari: il centro di Roma ha perso oltre un quarto dei suoi residenti negli ultimi 15 anni. Calamità demografiche ancora più rapide hanno colpito i centri di Venezia e Firenze. Questa “età del turismo” è visibile ovunque. Dalle targhe dei B&b affisse sui palazzi storici, alle flotte di minivan, golf cart e valigie extra-large, si è assistito a un’esplosione di “negozi di limoncello, tiramisù bar e onnipresenti ciotole di spaghetti”.
Cos’è la ‘foodification’: gentrificazione da cibo
Gli esperti definiscono questo processo, alimentato da una frenesia alimentare globale, come “foodification“. Il termine unisce “food” (cibo) e “gentrification” (gentrificazione). Gli accademici che hanno studiato questo fenomeno, come Panos Bourlessas, Samantha Cenere e Alberto Vanolo, del mondo accademico torinese, hanno definito il fenomeno come la trasformazione gentrificante dello spazio urbano attraverso specifiche spazialità alimentari distinte.
In pratica, il cibo, insieme ai discorsi, alle materialità e alle pratiche che genera, produce un’”atmosfera di dislocazione” (displacement atmosphere) nel quartiere. Il caso analizzato dagli studiosi riguardava Torino qualche anno fa, ma oggi è applicabile a molte capitali europee, oltre che italiane. Si basa sulla sinergia di tre elementi costitutivi:
- La riqualificazione stigmatizzante
Il discorso istituzionale spesso legittima queste trasformazioni collegando gli interventi guidati dal cibo alla “riqualificazione” del quartiere, spesso dopo averlo stigmatizzato come “problematico” o “degradato”. Il cibo di alta qualità viene associato a un valore culturale e di status, trasformando la città in una “Capitale del gusto”. - L’estetica del cibo stereotipato
Le trasformazioni materiali includono l’estetizzazione del cibo. Negozi e ristoranti spesso espongono macchinari di produzione in vetrina o usano estetiche artigianali, fornendo “agganci materiali” per marcare la distinzione del cibo venduto. Nel Mercato del Capo di Palermo, un tempo dedicato alla vendita di zucchine e pesce ai residenti, oggi prevalgono la pasta a spirale su un bastoncino, i dolci di marzapane a forma di cannoli e il cibo di strada fritto per i turisti. Paolo di Carlo, un fruttivendolo di terza generazione intercettato dal quotidiano statunitense, ha perso tutti i suoi clienti, lamentando: “Ora qui è tutto fast food”. - Una regola: comprare e consumare in loco
La foodification introduce nuove pratiche di consumo. Si assiste alla sostituzione della pratica transitoria di comprare materie prime fresche (come avveniva al mercato) con la pratica sedentaria di consumare il cibo in loco. Queste nuove pratiche, come il brunch invece della colazione tradizionale, sono potenziate dalla visibilità (ad esempio, mangiare con vista sul rooftop) e dalla conoscenza. Il consumo diventa un atto di educazione, dove i clienti vengono istruiti sulle origini dei prodotti, trasformandoli in “intenditori e gourmet”.
Secondo Roberto Calugi di Fipe (Federazione italiana delle imprese alimentari e del turismo), a volte il Colosseo è solo “una scusa per un americano tra un cacio e pepe e un’amatriciana”. Gli “anti-pasta agitatori” non incolpano i turisti, ma lamentano che il governo ha fatto troppo poco per sviluppare altre industrie. L’Italia, infatti, risulta in ritardo nell’innovazione rispetto alle altre grandi economie europee. Salvatore Settis, ex direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, ha sollevato un quesito provocatorio: “Perché non proviamo ad avere un nuovo Galileo invece di solo un gruppo di chef eccellenti?”. E che il tutto avvenga in regioni che combattono contro l’alta disoccupazione giovanile e la fuga dei cervelli, è inquietante. Una residente ha paragonato la situazione agli “ultimi giorni di Pompei,” dove “Prima che il Vesuvio eruttasse, la gente mangiava e cantava”.