Il buco dell’ozono ‘compie’ 40 anni

Dallo studio del British Antarctic Survey al Protocollo di Montreal: quattro decenni di misure contro una crisi atmosferica senza precedenti
16 Maggio 2025
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Ozono Spazio Terra

Il 16 maggio 1985 il mondo scientifico prese atto di una delle più gravi alterazioni atmosferiche mai documentate: la scoperta del buco dell’ozono. In un articolo sulla rivista scientifica Nature, destinato a cambiare la percezione globale sull’equilibrio chimico dell’atmosfera, i ricercatori Joseph Farman, Brian Gardiner e Jonathan Shanklin del British Antarctic Survey annunciavano la scoperta di una perdita massiccia di ozono sopra l’Antartide, documentata da misurazioni effettuate a partire dal 1977. L’ozono, che nella stratosfera forma uno scudo naturale contro i raggi ultravioletti Uv-B, risultava ridotto di oltre il 40% durante la primavera australe.

Il fenomeno, localizzato inizialmente sul Polo Sud, assumeva caratteristiche anomale: stagionalità marcata, estensione in aumento, profondità chimica. Nessuno strumento orbitale lo aveva rilevato fino a quel momento: i satelliti filtravano automaticamente i valori troppo bassi considerandoli errore. La rilevazione diretta condotta sul campo fu l’elemento decisivo che portò alla pubblicazione dei dati.

Il “buco dell’ozono” divenne rapidamente un tema prioritario nei consessi scientifici e istituzionali internazionali. Le implicazioni sanitarie legate all’aumento dei raggi Uv alla superficie terrestre (tumori cutanei, danni oculari, impatti su fitoplancton e colture) e le potenziali conseguenze sui cicli climatici contribuirono ad amplificare la portata della scoperta. Per la prima volta, veniva documentata su scala globale una trasformazione atmosferica attribuibile a cause antropiche.

Oggi, a quarant’anni esatti da quella data, il “compleanno” di quella ferita nel cielo è l’occasione per ripercorrere i fatti, le responsabilità chimiche, gli accordi internazionali che ne sono seguiti e lo stato attuale dello strato di ozono. Una storia che, per una volta, ha avuto una risposta globale concreta — e risultati misurabili.

Tutta colpa dei clorofluorocarburi

L’analisi delle cause individuò nei clorofluorocarburi (Cfc) i principali responsabili del fenomeno. Composti chimici stabili, utilizzati estensivamente come refrigeranti, propellenti e agenti espandenti, i Cfc non si degradano nella bassa atmosfera. Trasportati nella stratosfera, vengono demoliti dai raggi Uv e liberano atomi di cloro, che catalizzano la distruzione dell’ozono in reazioni a catena.

Il meccanismo era stato ipotizzato già nel 1974 da Rowland e Molina, ma le prime evidenze sperimentali emersero solo un decennio più tardi. Il ruolo aggravante delle nubi stratosferiche polari (Psc) in Antartide, che agevolano le reazioni del cloro attivo, rese il fenomeno particolarmente evidente nel polo sud. Le condizioni meteorologiche estreme della regione contribuirono ad accentuarne la gravità.

L’urgenza della situazione portò alla convocazione di tavoli tecnici internazionali che sfociarono, nel 1987, nella firma del Protocollo di Montreal. L’accordo prevedeva la progressiva eliminazione dei principali composti ozono-lesivi (clorofluorocarburi, halon, tetracloruro di carbonio, metilcloroformio), fissando un calendario di riduzioni e meccanismi di controllo. La partecipazione universale e la struttura flessibile, con aggiornamenti periodici, resero il trattato uno degli strumenti più efficaci della diplomazia ambientale.

Il Protocollo venne successivamente rafforzato da una serie di emendamenti (Londra 1990, Copenaghen 1992, Pechino 1999, Kigali 2016) che ampliarono l’elenco delle sostanze vietate e ne anticiparono le scadenze di ritiro dal mercato. Le alternative tecnologiche ai clorofluorocarburi si diffusero globalmente grazie al finanziamento del Multilateral Fund, istituito per sostenere i Paesi in via di sviluppo nella transizione.

Lo stato attuale dello strato di ozono

I rapporti scientifici delle Nazioni Unite confermano che, dalla fine degli anni ’90, lo strato di ozono ha cessato di diminuire ed è entrato in una fase di ricostituzione progressiva. I modelli previsionali indicano che i livelli pre-1980 potranno essere raggiunti entro il 2040 nell’emisfero nord, entro il 2066 sopra l’Antartide. La riduzione globale delle emissioni di ODS (ozone-depleting substances) è in linea con gli obiettivi del Protocollo.

Tuttavia, non mancano criticità. Nel 2018, l’analisi delle concentrazioni di Cfc-11 mostrò un’inattesa inversione di tendenza. Le indagini atmosferiche e satellitari puntarono verso aree industriali dell’Asia orientale, dove la produzione illegale era ancora attiva. Le azioni correttive adottate successivamente hanno riportato i livelli di emissione sotto controllo.

Un altro punto di attenzione è rappresentato dai composti fluorurati di nuova generazione, in particolare gli idrofluorocarburi (Hfc), impiegati come sostituti dei clorofluorocarburi. Pur non intaccando l’ozono, questi gas possiedono un elevato potenziale di riscaldamento globale. L’emendamento di Kigali al Protocollo di Montreal ha avviato un processo di riduzione progressiva degli idrofluorocarburi, al fine di contenere il loro impatto sul clima.

Il recupero dello strato di ozono dipende anche da fattori climatici esterni. Le modificazioni nella circolazione stratosferica, indotte dai cambiamenti climatici, possono influenzare la distribuzione e la velocità di rigenerazione dell’ozono. Le oscillazioni della corrente a getto polare, gli eventi di riscaldamento stratosferico improvviso (Ssw) e la temperatura media della stratosfera sono elementi monitorati costantemente.

Un caso di governance ambientale multilivello

La gestione della crisi dell’ozono è stata finora uno dei pochi esempi documentati di governance ambientale efficace su scala globale. La risposta internazionale si è basata su dati scientifici condivisi, trattati multilaterali con meccanismi di adattamento e strumenti finanziari dedicati. La riduzione misurabile delle sostanze regolamentate ha prodotto effetti verificabili sullo stato dell’atmosfera.

Oltre al recupero chimico dello strato di ozono, il Protocollo di Montreal ha evitato l’emissione di miliardi di tonnellate equivalenti di Co₂, contribuendo indirettamente anche alla mitigazione climatica. La collaborazione tra agenzie Onu, istituti di ricerca, governi e imprese ha permesso la diffusione di tecnologie sostitutive e lo sviluppo di capacità nei Paesi in via di sviluppo.

Il modello operativo del Protocollo continua a essere studiato come riferimento per future architetture ambientali globali. Tra gli elementi replicabili: il principio di precauzione, la revisione periodica delle soglie, la trasparenza nei dati, la presenza di fondi multilaterali vincolati e l’adozione di sanzioni in caso di non conformità.

A quarant’anni dalla scoperta, la protezione dello strato di ozono rimane una priorità nella governance atmosferica. Il mantenimento del monitoraggio, la prevenzione delle produzioni illegali e l’allineamento tra politiche climatiche e di qualità dell’aria rappresentano le nuove direttrici d’intervento.

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