Il patrimonio verde urbano italiano è a rischio. Venticinque metri quadrati di verde per abitante a Milano – contando tutto, dal parco storico all’aiuola spartitraffico – e 1,28 piante stimate per persona: meno di tre posti auto a testa convertiti in superficie verde. A ruota Napoli (circa 37 m² e 1,82 piante), Torino (46 m², 2,32 piante) e Bari (60 m², 3,54 piante). In mezzo, un Paese che procede a velocità irregolare, dove l’habitat di prossimità – i piccoli ecosistemi che tengono in vita impollinatori, uccelli, micromammiferi e, indirettamente, noi – è stato smembrato e spinto ai margini.
In vista della Giornata mondiale dell’Habitat di lunedì 6 ottobre, 3Bee e XNatura presentano i risultati 2025 sul patrimonio verde urbano in alcune delle principali città italiane. L’indagine offre una base misurabile per politiche, investimenti e responsabilità condivise. Ne parliamo con Virginia Castellucci, esperta di biodiversità di 3Bee | XNatura, che mette il punto: “Non abbiamo tanto tempo… bisogna essere un po’ coraggiosi in questa fase, perché le conseguenze della perdita di biodiversità le viviamo tutti i giorni”.
Cosa significa vivere con 25,82 m² di verde (o poco più)
Non serve un’alluvione da manuale per capire quanto il verde conti. La città senza alberi assorbe meno acqua, trattiene più calore, scarica più costi. La funzione idraulica è la prima a collassare: suoli impermeabili, tombini trasformati in imbuti, sottopassi allagati. Castellucci lo riassume con semplicità operativa: “Il verde funziona come una spugna… dove la città non è completamente cementificata, riduce i rischi di allagamenti”. La meccanica è elementare: più suolo vivo c’è, più acqua riesce a infiltrarsi, a essere rallentata, trattenuta, restituita senza danni alla rete. Ogni metro quadro di permeabile sottratto al bilancio urbano si traduce in maggiori picchi di deflusso e infrastrutture di drenaggio stressate, con ricadute evidenti su mobilità, servizi, sicurezza.
Il secondo fronte è termico. Isola di calore non è un modo di dire: misurazioni ripetute mostrano differenze di 2–3°C tra un viale alberato e una distesa di asfalto. Nelle ondate di calore, quel delta decide ricoveri, produttività, vivibilità. Le chiome intercettano radiazione, l’evapotraspirazione rilascia umidità e abbassa le temperature di fondo; dove gli alberi mancano, l’energia solare diventa calore intrappolato tra facciate e asfalto. La cronaca degli ultimi estati racconta il resto: mezzi pubblici rallentati, lavori stradali anticipati o sospesi, mortalità estiva che sale nelle fasce fragili. Tagliare alberi o rinviare piantumazioni equivale a rimuovere una difesa climatica a costo-beneficio molto favorevole.
C’è poi un capitolo spesso sottovalutato: il capitale sociale del verde. Dove gli spazi pubblici sono alberati e curati, si riducono conflitti e degrado, si alzano frequenza d’uso e percezione di sicurezza, cresce l’attività fisica spontanea. Non è welfare soft, è prevenzione. Al contrario, quando il verde diventa bene privato – giardini condominiali e cortili chiusi – l’accesso si polarizza. Il mercato immobiliare lo ha capito benissimo: “il verde è diventato un lusso”, ricorda Castellucci. Il risultato è una geografia della disuguaglianza climatica: quartieri che possono permettersi alberi maturi e irrigazione, altri che vivono tra griglie di sosta, lamiere calde e zero ombra.
I numeri dell’indagine 3Bee/Xnatura fotografano proprio questo scarto: è una mappa dei rischi, perché meno verde significa più costi pubblici, maggiore vulnerabilità e peggiori condizioni di salute.
‘Deserti urbani’ vs ‘città foresta’
Quando si cercano esempi utili, spunta spesso Parigi. Il Comune ha inserito la “città dei 15 minuti” in un quadro coerente: meno auto, più piste ciclabili, piazze-parcheggio riconvertite in spazi pubblici con verde, trasporto pubblico potenziato. Non è ideologia: è riduzione sistemica dei carichi su rete viaria e drenaggio, raffrescamento diffuso con nuovi alberi e permeabilizzazioni, prossimità di servizi che accorcia gli spostamenti e riduce emissioni. Funziona perché mette insieme regole, incentivi, cantieri e manutenzione. Senza una di queste gambe, la trasformazione si pianta.
E in Italia? Castellucci è netta: “Il trend è verso le città”. Il racconto consolatorio del “ritorno ai borghi” non regge ai dati demografici. Più persone in meno spazio uguale più vulnerabilità se non si interviene su consumo di suolo, mobilità, rilocalizzazione dei servizi, reti verdi e blu. I piani ci sono, le linee guida pure, ma spesso manca il cantiere o si spezza la continuità tra progetti e manutenzioni. Così il verde resta frammentato: rotatorie alberate, aiuole a spot, parchi periferici irraggiungibili senza auto.
C’è poi un malinteso ostinato: considerare il verde urbano come spesa corrente da tagliare quando i bilanci si fanno duri. Il risultato? Arretrati di potature, alberature mai arrivate a maturità, mortalità arborea senza sostituzioni, irrigazioni saltate nelle estati più siccitose. È un boomerang: ogni euro “risparmiato” viene ripagato con allagamenti, micro-interventi d’urgenza e perdita di benessere termico.
La rotta, però, è scritta. Reti di corridoi ecologici che connettano parchi, viali, cortili e tetti verdi; standard minimi di ombreggiamento per piazze e fermate del TPL; progetti di forestazione calibrati su suolo, specie e disponibilità idrica; permeabilizzazione di parcheggi e linee verdi/blu integrate ai piani di drenaggio urbano. Ogni metro quadrato recuperato conta. E non serve aspettare la grande opera: micro-ricuciture a scala di quartiere – un filare in più, un cortile scolastico rinverdito, un tetto trasformato – abbassano subito i rischi e alzano la qualità d’uso.
A livello sociale, il nodo è l’equità. Se il verde resta confinato nei quartieri “capaci di pagarlo”, la città perde funzione pubblica. Targeting e priorità sono imprescindibili: scuole, RSA, fermate con alta domanda, percorsi casa-lavoro sotto sole pieno. Non solo numero di alberi, ma dove e come piantarli, con manutenzione garantita.
Crediti di biodiversità, cosa sono e a che servono
La novità che cambia il gioco è l’ingresso nel lessico operativo dei Crediti di Biodiversità. Il principio è semplice: un credito certifica 1.000 metri quadrati equivalenti di habitat rigenerati e monitorati per un anno, con tracciabilità dei risultati. La differenza cruciale rispetto ai crediti di carbonio è che la biodiversità è locale: “Se ho il mio sito produttivo in Brianza, non posso comprare un credito in Sud America”, chiarisce Castellucci. La compensazione deve avvenire vicino all’impatto (entro un raggio di circa 150 km), altrimenti è contabilità creativa.
Il perno tecnico è l’MSA (Mean Species Abundance), indicatore chiave che esprime lo stato del suolo e dell’ecosistema rispetto a una condizione di riferimento. Si parte da una baseline misurata con immagini satellitari, rilievi in campo e sensori; poi si attuano interventi (rinaturalizzazioni, siepi e filari, zone umide, prati fioriti, boschi misti, deimpermeabilizzazioni) e si misura il delta. Se c’è miglioramento aggiuntivo, durevole e verificabile – tre parole chiave – si genera il credito.
La cornice regolatoria è lo standard UNI/PdR 179, pubblicato il 23 settembre 2025: una prassi volontaria che regola metodologie e certificazione dei crediti. Stabilisce criteri condivisi, procedure di audit, divisione dei ruoli tra misurazione degli impatti aziendali e certificazione dei progetti di rigenerazione. È la risposta alla domanda che accompagna ogni annuncio green: come evitiamo il greenwashing? Con misure comparabili, dati aperti agli audit, monitoraggi nel tempo.
Sul lato economico, la piattaforma è pronta a intercettare il gap di finanziamento. L’Ue ha stimato in 65 miliardi di euro il disavanzo tra bisogni e risorse per la biodiversità: i soli fondi pubblici non bastano. Castellucci è chiara: “Le imprese devono contribuire… perché beneficiano dei servizi ecosistemici e sono esposte ai rischi della loro perdita”. I crediti trasformano la tutela in capex mirato e valore tracciabile: un bosco misto vicino allo stabilimento, una zona umida lungo il corridoio logistico, fasce fiorite per impollinatori attorno ai campi dei fornitori. Localizzazione, trasparenza, conformità: tre principi che consentono a banche, assicurazioni e investitori di valutare e premiare chi rigenera.
La governance? Richiede un registro volontario solido, la non doppia contabilizzazione, la durabilità (non basta piantare, bisogna far crescere), e criteri di addizionalità: l’intervento deve generare benefici che non sarebbero avvenuti comunque. È qui che tecnologia e standard si incontrano: sensori acustici per gli impollinatori, telerilevamento per coperture vegetali e umidità del suolo, campionamenti per suolo e habitat.
Quando l’habitat diventa politica urbana
Per Castellucci il punto cieco sta nella nostra presunta irrilevanza. “Siamo cittadini e anche consumatori: influenziamo il mercato”: detto così sembra ovvio, ma cambia la scena. La domanda individuale non è un like: è un contratto. Scegliere di abitare – o anche solo di spendere – in quartieri e città che mettono il verde urbano tra le priorità sposta budget, indirizza i piani regolatori, obbliga i gestori a mantenere. “La scelta di vivere in delle città che hanno già attenzionato il tema del verde urbano è anche quella una scelta, è anche quella una presa di posizione”, insiste.
Significa fissare criteri semplici e non negoziabili: ombra nelle fermate e nelle scuole, suolo che drena, continuità di corridoi ecologici. E smettere di ragionare in termini di solo “verde pubblico”: “il verde urbano non è solo verde pubblico, molto spesso è anche la somma di verde pubblico con il verde privato”. Quindi contano i cortili condominiali aperti fuori orario, i tetti che diventano giardini estensivi, le fasce fiorite ai bordi dei lotti, i micro-interventi in grado di connettere ciò che oggi è a macchia di leopardo. Qui la leva del cittadino-consumatore è concreta: scegliere amministrazioni che lo rendono possibile, premiare operatori immobiliari che consegnano metri quadrati permeabili e ombra reale, chiedere contratti di manutenzione esposti in bacheca come si fa con i menù dei ristoranti.
A chi governa le città, Castellucci non concede l’alibi della complessità: “Questa transizione sembra molto lenta… i sistemi urbani sono sistemi complessi”, certo, ma proprio per questo vanno innestate decisioni che muovono subito la curva – cantieri rapidi, priorità sociali chiare, monitoraggi pubblici – invece di attendere il piano perfetto. Dal lato dei cittadini, agire come se il mercato ascoltasse davvero – perché lo fa. La rivoluzione dal basso evocata da Castellucci non ha striscioni: ha scontrini, contratti, scelte d’uso. È lì che l’Habitat smette di essere parola e diventa abitudine: quando la prossima estate, alla fermata più esposta del quartiere, oltre alla pensilina ci sarà finalmente un albero che fa ombra.
