Città dei 15 minuti, un modello possibile per l’Italia?

Il modello che ridisegna la mobilità urbana divide l’Europa e mette l’Italia davanti alle sue contraddizioni
2 Ottobre 2025
4 minuti di lettura
Cronometro

Ogni cittadino dovrebbe poter raggiungere in un quarto d’ora a piedi o in bicicletta i servizi essenziali: scuola, lavoro, sanità, commercio, tempo libero. È il principio della città dei 15 minuti, concetto semplice che però implica una trasformazione radicale di come si progetta lo spazio urbano. Non è un’utopia: a Parigi, Barcellona, Utrecht e Amsterdam è già parte delle politiche urbane. In Italia, invece, resta soprattutto un obiettivo di piano.

Dal 1° ottobre 2025, con l’entrata in vigore di nuove limitazioni alla mobilità urbana, il tema si è imposto con maggiore forza: se si riduce l’uso dell’auto privata, bisogna offrire alternative immediate. Senza servizi e trasporto di prossimità, la restrizione resta una penalizzazione e non una scelta urbana.

Cos’è la città dei 15 minuti e dove funziona

Il concetto di ‘città dei 15 minuti’ è stato elaborato dal professore Carlos Moreno, docente alla Sorbona, e reso operativo a Parigi dalla sindaca Anne Hidalgo. La città ha eliminato circa 60mila parcheggi in superficie, convertendoli in verde, spazi pedonali e piazze attrezzate. Sono stati costruiti oltre 50 km di nuove piste ciclabili, con un aumento del 30% nell’uso della bicicletta tra 2019 e 2022 e una riduzione stabile del traffico privato. Non si tratta di operazioni simboliche, ma di dati concreti raccolti dal Comune e diffusi per monitorare l’impatto.

Barcellona ha introdotto le superilles, superblocchi che limitano l’accesso alle auto di attraversamento. Nell’Eixample, quartiere tra i più densi d’Europa, le aree pedonali sono aumentate del 30% e i valori di ossidi di azoto si sono abbassati. Gli studi sugli effetti hanno mostrato che il commercio locale non ha subito penalizzazioni, anzi ha visto crescere i flussi.

Il modello si è diffuso anche in Nord Europa. Utrecht e Amsterdam hanno pianificato scuole, mercati e poli sanitari entro distanze ciclabili, inserendo la logica dei 15 minuti nei propri strumenti di mobilità sostenibile. A Copenaghen la prossimità è stata collegata a una rete di trasporto pubblico capillare, evitando che la pedonalizzazione diventasse isolamento.

In Italia i primi riferimenti compaiono nei Piani Urbani di Mobilità Sostenibile. Milano, Bologna e Torino hanno introdotto obiettivi legati alla prossimità, mentre Firenze ha parlato di “città a 10 minuti” con focus sulle scuole. Ma siamo ancora alla fase sperimentale, senza applicazioni su scala di intera città.

Meno auto, più salute e inclusione sociale

  1. Il primo fronte è ambientale. L’Agenzia Europea dell’Ambiente stima che in Italia l’inquinamento atmosferico provochi circa 52mila morti premature ogni anno. Il trasporto privato è tra le principali fonti di particolato e ossidi di azoto. Ridurre la necessità di spostamenti in auto non è solo un obiettivo climatico, ma una misura sanitaria diretta.
  2. Il secondo riguarda la salute pubblica collegata alla mobilità attiva. Quartieri dove i servizi sono raggiungibili a piedi o in bicicletta spingono naturalmente a camminare e pedalare. Studi epidemiologici condotti nei Paesi Bassi e in Scandinavia hanno documentato la correlazione tra accessibilità a spazi verdi e riduzione di obesità e malattie cardiovascolari. La prossimità urbana diventa così prevenzione medica.
  3. Il terzo elemento è sociale. La distanza dai servizi contribuisce a produrre disuguaglianze: chi non possiede un’auto resta escluso da istruzione, sanità, cultura. Garantire scuole, RSA, poliambulatori e verde accessibili significa riequilibrare l’accesso alle opportunità urbane. È anche un tema di inclusione: anziani, famiglie senza automobile, studenti possono vivere pienamente il quartiere senza dover dipendere da trasporti costosi o assenti.
  4. Infine, la dimensione economica. Dove i servizi di prossimità funzionano, i negozi di quartiere e le attività locali hanno un bacino stabile di clienti. È il contrario del modello dei grandi centri commerciali, che per anni hanno drenato flussi dalle città. Le esperienze di Barcellona dimostrano che la pedonalizzazione non impoverisce l’economia urbana, ma la ricolloca.

Urbanismo punitivo o gentrificazione?

L’applicazione del modello ha sollevato resistenze. Una prima critica è quella dell’“urbanismo punitivo”: pedonalizzazioni e divieti di circolazione vengono percepiti come imposizioni che limitano la libertà di movimento. In quartieri senza servizi o trasporto pubblico adeguato, le restrizioni diventano un aggravio concreto.

C’è poi il rischio gentrificazione. Interventi di rigenerazione con verde e servizi fanno crescere i valori immobiliari. A Parigi e Barcellona si è registrato un aumento dei canoni d’affitto e dei prezzi delle case nelle aree interessate. Le fasce a reddito medio-basso rischiano l’espulsione, trasformando la città dei 15 minuti in privilegio per chi può permetterselo.

Il dibattito è stato anche distorto da campagne di disinformazione. Nel Regno Unito, tra 2023 e 2024, sono circolate fake news che descrivevano il modello come una sorta di “lockdown urbano”, con cittadini costretti a restare nel proprio quartiere. Un’interpretazione infondata, ma capace di orientare la percezione pubblica. La polarizzazione ha dimostrato che ogni intervento urbanistico che tocca la mobilità è destinato a scontrarsi con narrazioni contrapposte.

Il nodo delle città italiane

Il contesto italiano è contraddittorio. I centri storici medievali e rinascimentali sono già compatti: scuole, mercati, presidi sanitari sono a distanze ravvicinate. Qui il problema è l’accessibilità, spesso ridotta da traffico e turismo di massa. La priorità è restituire spazi ai residenti, non inventare nuovi servizi.

Le periferie, invece, sono state progettate per l’auto: palazzoni, servizi rari, trasporto collettivo carente. In queste aree raggiungere un supermercato o un ambulatorio può significare mezz’ora in macchina. È qui che la città dei 15 minuti rischia di restare un concetto teorico.

Milano ha avviato pedonalizzazioni e nuove ciclabili, ma il divario tra centro e periferia resta ampio. Bologna ha impostato un piano policentrico, Firenze ha lanciato la logica dei 10 minuti concentrandosi sulle scuole. Torino lavora sui Piani Urbani di Mobilità Sostenibile per ridurre del 20% l’uso dell’auto entro il 2030. Roma rimane il caso più critico: trasporto pubblico inaffidabile, estensione enorme, servizi distribuiti in modo irregolare.

Un’analisi comparativa colloca solo Milano tra le città europee con trasporto pubblico locale efficiente, mentre Roma, Napoli e Palermo restano in fondo alle classifiche. È il dato che riassume il nodo italiano: senza TPL solido, la prossimità resta retorica.

Perché il modello non diventi slogan servono tre condizioni minime: pianificazione integrata tra urbanistica, mobilità e servizi; risorse destinate alla manutenzione ordinaria e non solo a progetti straordinari; criteri di equità per evitare nuove esclusioni. Altrimenti, tra rinvii e misure tampone, la città dei 15 minuti rischia di restare una promessa mai tradotta in realtà.

Smart Cities | Altri articoli