Il grande esperimento del lavoro da casa, avviato per necessità durante il Covid-19, ha lasciato un segno permanente nel panorama aziendale italiano. Prima del 2020, era una rarità: riguardava solo l’1,2% dei dipendenti su base giornaliera nel 2019. Nel pieno della crisi, questo numero è schizzato a quasi il 15%.
Oggi, il fenomeno si è normalizzato, ma non è scomparso: dal 2023, circa il 28% delle aziende mantiene accordi di lavoro da remoto, coinvolgendo in media il 4,5% della forza lavoro quotidiana. Ma quali sono stati i vantaggi e gli svantaggi e chi ne ha beneficiato?
L’effetto medio è neutro
A rispondere a questo quesito è un recente studio della Banca d’Italia, il quale ha analizzato l’impatto del lavoro da casa sulle imprese italiane fino al 2023, fornendo una risposta concreta: in media, l’effetto sulla produttività del lavoro è nullo o trascurabile. Ciò significa che, per l’azienda italiana media, la diffusione massiccia del lavoro da casa non ha né peggiorato né migliorato i risultati aziendali nel medio periodo (2019-2023).
Secondo gli autori del report, questa “neutralità” suggerisce che l’esperienza pandemica ha permesso alle aziende di superare la riluttanza e l’incertezza che prima bloccavano il lavoro da remoto, perché “se gestito (lo smart working, ndr), non danneggia la produttività”. Né benefici, né danni alla produttività, quindi, ma non per tutti.
La ricerca ha rilevato una profonda eterogeneità. Lo smart working è stato un fattore di successo solo per un gruppo specifico di aziende: quelle che erano già preparate. In particolare, per quelle imprese che avevano effettuato investimenti pre-pandemici in tecnologie digitali (come gli investimenti in tecnologie 4.0 o tecnologie cloud) o che mostravano una bassa resistenza iniziale al cambiamento. Queste sono state le uniche ad aver sperimentato un piccolo ma significativo guadagno di produttività. In pratica, se un’azienda aveva già gli strumenti digitali e applicava pratiche manageriali giuste incentrate sugli obiettivi, il lavoro da remoto aumentava l’efficienza.
Mantere la flessibilità: per chi?
Secondo Bankitalia, quelle aziende che hanno registrato miglioramenti nella produttività del lavoro sono state anche quelle che hanno mostrato una maggiore persistenza nell’uso del lavoro da remoto dopo la fine dell’emergenza. Questo lega il successo alla scelta duratura: l’esperienza positiva ha alleviato le incertezze iniziali, rendendo la flessibilità un vantaggio competitivo.
Inoltre, lo smart working è un fattore che potrebbe incidere sulla retribuzione. Per i “colletti bianchi”, cioè coloro che svolgono un lavoro d’ufficio, spesso non fisico, lo smart working potrebbe agire come benefit aziendale; mentre per i “colletti blu”, cioè coloro che si dedicano a lavori manuali e fisici in fabbriche o cantieri, ad esempio, l’implementazione dello smart working potrebbe riguardare differenziali salariali compensativi.
In definitiva, il report suggerisce che il lavoro da remoto non è una misura correttiva universale, ma un fattore di potenziamento per le organizzazioni che hanno investito in tecnologia e gestione del personale. Mantenerlo ha senso per le imprese che hanno saputo dimostrare che la flessibilità può essere gestita senza sacrificare l’efficienza.
“Questo articolo suggerisce diverse aree per ricerche future – scrivono i ricercatori -, come l’impatto sugli esiti di lungo periodo dei lavoratori nel mercato del lavoro e sul loro benessere (guardando anche oltre i salari) e la necessità di considerare aspetti legati all’offerta di lavoro, come gli investimenti in capitale umano, le decisioni di pendolarismo e gli effetti sulle scelte di partecipazione al mercato del lavoro”.
E concludono: “Ulteriori ricerche sulle pratiche di assunzione, sugli investimenti in tecnologie digitali avanzate, sulle pratiche manageriali e sull’apprendimento attraverso la pratica dovranno tenere conto degli effetti eterogenei tra le imprese”.