“Quo vado?” come paradigma sociale: il posto fisso nell’Italia del Censis 2025

Stabilità, engagement debole e carichi di cura: i dati Censis mostrano un mercato del lavoro che fatica ad evolvere
5 Dicembre 2025
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murales Checco Zalone che tiene cartello cercasi posto fisso
Checco Zalone con la scritta "Cercasi posto fisso" in un murales nel quartiere Madonnella di Bari (Ipa/Fotogramma)

Il “posto fisso” non ha mai smesso di esercitare il suo richiamo. Negli ultimi anni è diventato quasi un segno distintivo del carattere nazionale, e Checco Zalone in “Quo vado?” ne ha fissato l’immagine più riconoscibile, giocando sull’ansia di perdere l’unica certezza che molti italiani considerano intoccabile. Quel registro ironico aiuta a mettere a fuoco i dati del 59° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese 2025: quasi la metà degli italiani individua nel pubblico impiego l’approdo professionale preferito.

L’idea di stabilità supera la spinta al cambiamento, mentre la mobilità rimane contenuta e le carriere si sviluppano lentamente, spesso senza margini reali di evoluzione. Questa tendenza a cercare protezione più che opportunità produce effetti che vanno oltre le scelte individuali. Condiziona la produttività, la qualità dell’ambiente lavorativo e persino la disponibilità ad aggiornare competenze in un mercato che richiederebbe invece rapidità e adattamento. Attorno a questa inclinazione si sommano altri elementi strutturali: una motivazione interna alle imprese non sempre solida, un carico domestico che grava ancora soprattutto sulle donne e un sistema di cura che porta milioni di caregiver a lavorare in condizioni psicologiche difficili.

Quo vado? Al posto fisso

Il 46,4% degli italiani preferirebbe un impiego nel settore pubblico, mentre il privato convince il 30,6% e solo l’11% sceglierebbe la libera professione o l’imprenditoria. Non si tratta di una deviazione passeggera, ma dell’effetto combinato di vari fattori: per il 63% dei dipendenti pubblici la ragione principale è la stabilità; il 55,1% indica il reddito fisso; il 35,2% punta alla minore esposizione al rischio di licenziamento. Il risultato è un mercato del lavoro che privilegia permanenze lunghe, con una media italiana di 11,7 anni nello stesso posto contro i 9,9 europei.

Il dato più rilevante emerge però confrontando queste scelte con la percezione del contesto lavorativo. Solo il 38% dei lavoratori ritiene sano, dal punto di vista psicologico ed emotivo, il proprio ambiente professionale, una quota inferiore di oltre venti punti rispetto ai Paesi nordeuropei. La combinazione appare contraddittoria: si cercano sicurezza e continuità in luoghi percepiti come poco accoglienti e spesso rigidi. Questo scarto si riflette sul comportamento dei lavoratori, che preferiscono mantenere posizioni consolidate anche in assenza di prospettive chiare.

La difficoltà a integrare stabilità e innovazione incide su vari livelli. Da un lato, rallenta la diffusione di nuove competenze; dall’altro, riduce la disponibilità a sperimentare percorsi diversi o ad affrontare cambiamenti organizzativi. Nei fatti, una parte consistente della forza lavoro tenta di mantenere uno status raggiunto più che di costruire un avanzamento. È un atteggiamento razionale in un contesto percepito come incerto, ma produce una sorta di immobilismo che penalizza il sistema produttivo e rende complesso allineare le imprese italiane ai ritmi europei. In questo scenario, la rappresentazione comica del posto fisso diventa una chiave utile per leggere un comportamento che risponde a logiche profonde, non a nostalgie o abitudini: un Paese che teme l’instabilità tende a difendere ciò che conosce, anche quando la qualità del lavoro non appare adeguata alle sfide attuali.

Coinvolgimento cercasi

All’interno delle imprese il tema centrale non riguarda tanto la stabilità, quanto la motivazione. Nel settore privato solo il 29,4% dei dipendenti si dichiara molto motivato. La differenza generazionale è evidente: tra gli over 55 la quota sale al 37,5%, mentre tra gli under 44 scende al 24%. Anche la posizione professionale pesa: il 32,2% dei lavoratori intermedi mostra un livello elevato di coinvolgimento, contro il 26,1% di chi svolge mansioni esecutive.

La mancanza di engagement non è solo un indicatore psicologico, ma una variabile economica. Il 38,3% dei lavoratori percepisce un impatto significativo sulla produttività dell’impresa quando il coinvolgimento cala; un altro 34,2% lo considera comunque influente. Questo significa che due terzi della forza lavoro riconoscono un collegamento diretto tra partecipazione attiva e risultati operativi.

Le cause sono molteplici: mansioni non coerenti con le competenze, scarse occasioni di aggiornamento, processi decisionali poco trasparenti e percorsi interni non sempre definiti. In queste condizioni, il lavoro perde centralità. Il distacco non assume forme eclatanti, ma si manifesta in piccoli segnali quotidiani: minor iniziativa, minore disponibilità a collaborare, attenzione limitata all’evoluzione della propria area di competenza. L’effetto cumulativo coinvolge l’intera struttura aziendale, rallentando la capacità di innovare e di adattarsi ai cambiamenti tecnologici.

L’Italia si trova così a gestire una distanza evidente tra la domanda di stabilità e la necessità di rafforzare la motivazione interna. In molti settori la struttura gerarchica rimane rigida, mentre nei mercati internazionali si affermano modelli che valorizzano mobilità interna, rotazione dei ruoli e aggiornamento continuo. La difficoltà non riguarda solo l’organizzazione, ma anche la cultura del lavoro, che ancora fatica a riconoscere il coinvolgimento come leva strategica e tende a considerarlo un elemento spontaneo, non il risultato di un investimento strutturato.

La seconda giornata lavorativa delle donne

Il tempo dedicato alla casa rimane uno dei principali fattori che influenzano la partecipazione femminile al lavoro. Il 54,4% delle donne svolge personalmente le faccende domestiche, contro il 17,6% degli uomini. Il 14,9% degli uomini non vi partecipa affatto, una quota quasi tripla rispetto al 5,6% delle donne. Sul fronte opposto, il 67,5% degli uomini dichiara di svolgerle insieme ad altri membri della famiglia, mentre tra le donne la condivisione si ferma al 40%. Quasi sei donne su dieci dedicano almeno due ore al giorno alla gestione della casa.

Questi dati evidenziano una frattura che non può essere considerata collaterale. Il carico domestico condiziona le scelte professionali, riduce la disponibilità a ruoli impegnativi, limita la possibilità di accedere alla formazione e incide anche sulla salute. L’Italia rimane un Paese in cui la distribuzione del lavoro domestico non rispecchia la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e continua a penalizzare avanzamenti di carriera, specializzazioni e stabilità.

Il divario non è solo culturale. Ha effetti concreti sulle imprese, che spesso osservano una minore permanenza delle donne in ruoli ad alta intensità oraria e una difficoltà maggiore nel garantire continuità in posizioni di responsabilità. La seconda giornata lavorativa sottrae energie e tempo in modo sistematico, imponendo una selezione forzata tra ambizione professionale e gestione familiare. Ciò si traduce in un rallentamento complessivo della mobilità interna e in una riduzione del bacino di competenze pienamente attive.

Il quadro europeo mostra come l’espansione dei servizi di supporto alla famiglia possa attenuare questi effetti. In Italia, però, il nodo rimane all’interno delle mura domestiche: la distribuzione del lavoro familiare procede con lentezza, mentre le politiche pubbliche si muovono con ritardi che amplificano differenze già radicate. La conseguenza è un sistema nel quale la produttività femminile non dipende dalle capacità individuali, ma dal tempo che resta dopo la gestione quotidiana della casa.

Chi assiste chi assiste?

Il lavoro di cura rivolto a familiari non autosufficienti rappresenta una pressione aggiuntiva, spesso non riconosciuta. I caregiver, stimati in circa 7 milioni nel 2019, affrontano un quadro di conciliazione difficile: solo il 14,2% ha ottenuto orari flessibili, contro il 15,6% della media europea e il 21,4% della Germania; il 14,1% ha modificato il proprio orario di lavoro, una quota inferiore al 14,6% europeo e lontana dal 19,4% tedesco. Anche i periodi lontani dal lavoro risultano più gravosi: 10,1% in Italia, contro il 9,7% europeo e il 6,3% tedesco.

Gli effetti sulla salute sono rilevanti. Il 23,8% dei caregiver riferisce sintomi depressivi moderati; il 13,6% moderatamente severi; il 7,3% gravi. Le donne risultano più esposte, con il 15,8% di sintomi moderatamente severi, contro il 6,5% degli uomini. Solo il 30,4% dichiara una buona salute e appena il 6,1% una salute molto buona. Numeri che evidenziano uno sforzo costante, spesso sostenuto senza strumenti adeguati e con ricadute dirette sulla capacità di lavorare con continuità.

La mancanza di un sistema strutturato di supporto produce conseguenze immediate sulle imprese, che devono gestire assenze difficili da programmare e una riduzione dell’energia disponibile dei lavoratori coinvolti. Questo scenario diventerà più pressante nei prossimi anni, dato l’aumento della popolazione anziana e la crescita della domanda di assistenza. In un mercato che già affronta livelli non elevati di motivazione interna e un forte orientamento alla stabilità, l’aggiunta di un carico di cura sempre più diffuso accentua la fragilità complessiva del sistema. Il risultato è una forza lavoro che opera spesso al limite, divisa tra esigenze familiari e responsabilità professionali, con ripercussioni che si propagano dalla produttività individuale alla competitività nazionale.

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