Un tempo, la frase “ho trovato un posto fisso” equivaleva a una medaglia. Oggi, è sempre più simile a un punto di partenza da cui evadere. In Italia, quattro dipendenti su dieci stanno guardando altrove, pronti a lasciare il proprio impiego entro l’anno. È quanto emerge dal nuovo European Workforce Study 2025 di Great Place to Work, un’indagine che ha ascoltato quasi 25mila collaboratori in 19 paesi europei.
Con il 40% dei lavoratori italiani pronti a cambiare azienda, l’Italia conquista un primato tutt’altro che invidiabile, superando Francia e Polonia (entrambe al 38%), Portogallo (37%) e Irlanda (35%), ben lontanti dal 25% della Norvegia, dove solo un lavoratore su 4 vorrebbe cambiare. Siamo il fanalino di coda in Europa per capacità di fidelizzare i dipendenti. Ma cosa si nasconde dietro questo dato allarmante? Semplice insofferenza, oppure un segnale profondo che racconta la fragilità del nostro sistema lavorativo?
A cambiare è il contratto psicologico tra lavoratore e azienda. Non basta più la stabilità: i lavoratori italiani vogliono essere valorizzati, ascoltati, coinvolti. E se questo non accade, scelgono la via dell’uscita. Una rivoluzione silenziosa, ma dal potenziale esplosivo.
Oltre i numeri
Non si tratta solo di una statistica: quel 40% di potenziali dimissionari rappresenta uno spartiacque culturale. È il segnale che il rapporto tra lavoratori e aziende si è incrinato, o forse che sta evolvendo più rapidamente di quanto le imprese riescano a stare al passo. Non si tratta di un capriccio collettivo, ma di una trasformazione strutturale delle aspettative.
Perché così tanti lavoratori vogliono andarsene? Le motivazioni sono molteplici, ma al centro c’è un senso diffuso di disallineamento tra ciò che viene promesso e ciò che viene effettivamente offerto. I dipendenti si sentono poco valorizzati, il clima organizzativo è spesso percepito come sterile o addirittura tossico, e la leadership aziendale viene giudicata distante, inefficace o incoerente.
In parallelo, è cresciuta l’importanza della realizzazione personale, dell’equilibrio tra vita privata e lavoro, della possibilità di scegliere come, dove e quando lavorare. In assenza di queste condizioni, il posto fisso non è più un approdo sicuro, ma una prigione da cui evadere. In questa dinamica, l’Italia mostra una vulnerabilità più marcata rispetto ad altri paesi europei, dove i tassi di intenzione al cambiamento sono più contenuti (come Austria al 21%, Germania e Paesi Bassi al 23%).
Giovani inquieti e senior disillusi
A trainare l’insoddisfazione sono i giovani della GenZ, ma l’insofferenza al posto di lavoro si allarga ben oltre i confini generazionali. Nella fascia 18-24 anni, il 40% degli occupati intende lasciare l’azienda in cui lavora. Ma anche tra i 25-34enni il dato resta alto (36%), così come nella fascia 35-44 (30%). Persino tra gli over 55, uno su quattro si dichiara pronto al cambiamento.
Questi dati evidenziano una frattura diffusa e intergenerazionale, che assume forme diverse a seconda dell’età ma che converge su un punto comune: la delusione verso l’esperienza lavorativa attuale.
- I giovani cercano ambienti dinamici, opportunità di crescita rapide, leader credibili, missioni aziendali valoriali. Non trovandoli, migrano.
- I millennial (oggi manager di prima linea) vivono il paradosso di dover motivare i team mentre sono essi stessi in cerca di motivazione.
- I lavoratori maturi restano per abitudine o convenienza, ma spesso con un coinvolgimento ridotto e una fiducia limitata nella leadership.
Insomma, il problema non è circoscritto ai più giovani: l’intero ecosistema del lavoro in Italia sta mostrando crepe preoccupanti, e il dato del 40% è solo la punta dell’iceberg.
Un rischio sistemico per le imprese italiane
Cosa succede quando quattro persone su dieci se ne vanno, o pensano di farlo? Il rischio è che l’azienda si svuoti non solo di personale, ma di competenze, memoria storica, relazioni interne, spirito di squadra. Il turnover, soprattutto se continuo, ha effetti devastanti sulla produttività e sulla credibilità del brand come datore di lavoro.
E c’è di più. Il costo economico del turnover – spesso invisibile nei bilanci – è tutt’altro che trascurabile. La stima di Great Place to Work Italia parla chiaro: in un’organizzazione da 100 dipendenti, un turnover del 10% genera fino a 200.000 euro annui di costi. Non solo: le aziende si trovano sempre più spesso a dover spendere per formare e rifare, senza mai costruire un capitale umano stabile e coeso.
Ogni persona che se ne va porta via con sé tempo, investimenti, fiducia. E ogni nuova assunzione, per quanto brillante, non garantisce risultati immediati. I team restano sbilanciati, la motivazione si incrina, il clima aziendale si deteriora.
In questo scenario, non investire sulla retention è un rischio sistemico. Non basta attrarre talenti se poi li si lascia fuggire al primo ostacolo.
Se il 40% dei dipendenti italiani è pronto a cambiare lavoro, le aziende hanno una sola strada: intercettare i segnali prima che sia troppo tardi. La chiave è l’ascolto, ma non quello retorico delle indagini annuali senza seguito. Serve un ascolto continuo, autentico e operativo, capace di trasformare i feedback in azioni concrete.
È qui che entrano in gioco strumenti e metodologie basati su survey periodiche, interviste one-to-one, focus group, ma anche piattaforme digitali per la raccolta continua delle opinioni. Ma ascoltare non basta. Serve agire, comunicare, dare risposte.
Ecco alcune leve su cui puntare, secondo Great Place to Work:
- Coinvolgimento attivo: far sentire le persone parte di un progetto, dare loro autonomia, spazio per proporre e innovare.
- Leadership autentica: manager presenti, coerenti, empatici, in grado di guidare senza dominare.
- Sviluppo professionale: percorsi di crescita reali, personalizzati, visibili.
- Work-life balance: non un benefit, ma un diritto. Flessibilità, rispetto del tempo, supporto al benessere.
Questi elementi non sono più “nice to have”, ma fattori determinanti nella scelta di restare. E spesso, sono anche quelli che costano meno, ma rendono di più.