Il provvedimento della Regione Toscana su un possibile “salario minimo” finirà in Corte costituzionale. Dopo il testo unico sul tur ismo e la legge sul fine vita, il Governo ha impugnato anche la legge regionale entrata in vigore lo scorso 18 giugno e che puntava a tutelare alcune categorie di lavoratori. Il provvedimento, nello specifico, introduceva nelle gare regionali ad alta intensità di manodopera – basate sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa – un premio per le aziende che avrebbero applicato un salario minimo orario non inferiore a nove euro lordi.
Approvato un mese fa in Consiglio regionale con il voto favorevole di Pd, M5s, Gruppo misto-Europa Verde, aveva visto l’astensione del centrodestra. Negli scorsi giorni, il Governo lo ha contestato, impugnando l’atto e aprendo il dibattito sul diritto dei lavoratori ad una paga minima di base.
Polemica in opposizione
Per la segretaria del Partito democratico (Pd), Elly Schlein, il governo ha dimostrato di “avere paura del salario minimo. Tant’è che impugna una legge regionale della Toscana presso la Consulta pur di far scomparire dal dibattito pubblico questa legge di civiltà”. Per Schlein, “è scandaloso considerato che le famiglie non riescono ad arrivare alla fine del mese per le bollette alte e gli stipendi bassi. Stiano tranquilli, non solo continueremo a batterci perché in Parlamento torni la legge di iniziativa popolare su cui abbiamo raccolto oltre centomila firme, ma il salario minimo sarà centrale in tutti i programmi elettorali nelle regioni in cui andremo al voto. Non ci fermeranno con questi trucchetti”.
La risposta della Regione Toscana
Sulla stessa linea di pensiero della segretaria del Pd viaggia anche la sindaca di Firenze, Sara Funaro: “La destra al Governo impugna la legge toscana sul salario minimo, una misura che tutela lavoratrici e lavoratori. A Firenze siamo stati i primi in Italia ad applicarla, con un criterio premiale che garantisce almeno nove euro lordi all’ora negli appalti comunali. Perché per noi la dignità del lavoro e i lavoratori sono al primo posto, sempre. Bene ha fatto la Regione Toscana a estendere questa scelta a livello regionale. Trovo scandaloso che il Governo, invece di metterci lo stesso impegno, impugni una norma di civiltà”. E continua: “Del resto, non è la prima volta che il Governo impugna una legge toscana: ormai sembra quasi una tradizione. Peccato che a farne le spese siano sempre i diritti delle persone”.
“Indignazione, sconcerto e la ferma determinazione a dare battaglia in ogni sede a difesa della legge toscana sul salario minimo impugnata dal Governo”, reagisce così il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, che conferma l’obiettivo di tutelare gli stipendi dei dipendenti delle aziende che lavorano, in appalto, per la pubblica amministrazione. “Esprimo la mia più netta contrarietà alla decisione del Governo, si tratta di una norma di civiltà, pensata per garantire dignità e tutele a chi lavora, premiando negli appalti pubblici le aziende che riconoscono almeno nove euro lordi all’ora ai propri dipendenti – ha detto Giani -. Come Regione Toscana ci costituiremo in giudizio davanti alla Corte Costituzionale per difendere con determinazione questa legge e il principio che la ispira: il lavoro deve essere giusto, sicuro e retribuito in modo equo. La Toscana continuerà a battersi per il rispetto della dignità delle persone e per un modello di sviluppo fondato sul lavoro di qualità”.
Con Giani l’assessore regionale ai contratti, Stefano Ciuoffo: “La legge è uno strumento per tutelare i salari, l’impugnativa non significa che la legge sia già stata bocciata: È bene ribadire con forza che ci sono elementi di valore per sostenere le ragioni della legge toscana. Inoltre, la premialità inserita non configura alcuna imposizione agli imprenditori che decidano di partecipare alle gare”.
Salario minimo in Europa
Il problema della mancanza di un salario minimo in Italia vale anche in altri Paesi dell’Unione europea. Nel blocco dei 27, questo varia da 551 euro al mese in Bulgaria a 2.704 euro al mese in Lussemburgo. Come riporta Eurostat, al primo luglio 2025, 22 dei 27 paesi dell’Unione avevano un salario minimo nazionale. Cinque paesi dell’Ue non ne avevano uno: Danimarca, Austria, Finlandia, Svezia e, appunto, l’Italia.
Una direttiva europea (2022/2041) ha stabilito un quadro normativo per salari minimi adeguati nell’Unione europea, mirando a migliorare le condizioni di vita e ridurre le disuguaglianze retributive. Essa si concentra su tre obiettivi principali: assicurare salari minimi legali dignitosi, promuovere la contrattazione collettiva in materia salariale e migliorare l’accesso effettivo dei lavoratori alla protezione salariale minima. La direttiva rispetta l’autonomia delle parti sociali e non impone un livello uniforme di salario minimo, ma incoraggia gli Stati membri a definire criteri chiari per la sua determinazione e aggiornamento.
L’Italia, come gli altri Paesi europei, avrebbe dovuto recepirla entro novembre 2024, ma un ricordo alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, intentato da Danimarca e Svezia, ha rallentato il procedimento. Il governo danese sostiene che la direttiva faccia parte di quell’insieme di materie sulle quali spetta alle singole sovranità nazionali legiferare. Ma, anche supponendo che la direttiva non rientri nell’ambito delle esclusioni relative alla retribuzione e del diritto di associazione di cui all’articolo 153, paragrafo 5 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue), il Parlamento e il Consiglio non hanno seguito una procedura valida.
Infatti, il governo danese osserva che la direttiva persegue due distinti obiettivi:
- disciplinare le “condizioni di lavoro” (articolo 153, paragrafo 1, lettera b), Tfue
- disciplinare la “rappresentazione e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori (…)” (articolo 153, paragrafo 1, lettera f), Tfue.
Per adottare gli atti giuridici in forza di queste due basi servono presupposti diversi e cioè che nel secondo caso è richiesta l’unanimità nel Consiglio. Mentre, per l’approvazione della direttiva, è stata utilizzata la procedura per la quale non è prevista l’unanimità. La direttiva, infatti, è stata approvata con il voto contrario proprio di Danimarca e Svezia e l’astensione dell’Ungheria.