Oggi il lavoro è post-umano, dice il filosofo Matteo Saudino (BarbaSophia)

Non ispira più né chi entra né chi esce. Il professore-influencer, al Festival Nobìlita, ha smontato quattro miti, dal legame lavoro-felicità all’idea del successo individuale
15 Luglio 2025
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Matteo Saudino al Festival Nobilita
Matteo Saudino al Festival Nobìlita (Foto Domenico Grossi)

Lavorare rende felici? È una misura del successo? E oggi cosa lavoriamo a fare? Sono molteplici e molto attuali, per non dire caldi, i temi affrontati recentemente al Festival Nobìlita di Reggio Emilia da Matteo Saudino, filosofo, professore all’Università di Torino e noto divulgatore social che, con il nome BarbaSophia, spiega con linguaggio accessibile temi classici e contemporanei della filosofia.

A queste domande Saudino offre una risposta molto netta, anche se poco piacevole da sentire: “Il lavoro oggi non ha una dimensione umana; è post-umano”. Questo perché “non è più finalizzato all’uomo, a farlo vivere meglio, ma al profitto delle grandi imprese”.

Una dinamica favorita anche dal fatto che “il lavoro è sparito dal dibattito pubblico e politico – le campagne elettorali si giocano su immigrazione, detassazione, guerra- ”, mentre invece andrebbe rimesso al centro della riflessione.

Un punto di partenza sono i “miti del lavoro”, credenze ormai obsolete o false illusioni che ancora serpeggiano e che finiscono per desocializzarlo e renderlo causa di solitudine o sfruttamento, anziché fonte di valore e comunità. Perché nel mondo contemporaneo “il lavoro è sociale ma il profitto è privato”, sottolinea il filosofo.

Saudino nel suo intervento al Festival Nobìlita, che quest’anno dal 28 al 31 maggio ha acceso i riflettori e la riflessione proprio sui ‘Miti e paure del lavoro’, ne ha smontati quattro, a partire dal rifiuto stesso del lavoro e dall’idea del successo individuale.

Lavorare rende felici?

La prima narrazione che il professore demolisce è che lavorare renda felici. “È il mito del non lavoro, del lavoro che va rifiutato”, e che va fatto da altri. Il filosofo ricorda che nel mondo greco e romano il lavoro fisico e materiale, quello che produce cose concrete, viene disprezzato da governanti e intellettuali in quanto manuale, e quindi ‘basso’ in confronto all’opera del pensiero, ‘alta’. Non a caso i nobili ancora oggi nell’immaginario non lavorano, ma sarebbe meglio dire che non lavorano fisicamente (nel 1800 anche il pallore era un attributo aristocratico, proprio in confronto con le classi più modeste, che stavano all’aria aperta per lavorare e dunque ‘prendevano il sole’).

“L’attività di governo, riflessione, organizzazione e cultura, questo era quello a cui si dedicavano i nobili”, evidenzia Saudino. In epoca classica, e anche dopo, non lavorare era esaltato, perché significava essere liberi, liberi di oziare: ovvero dedicarsi ad elevare il proprio spirito e il proprio intelletto: ”C’era la letteratura, c’era lo sport, il teatro, era contrapposto al lavoro”, svolto “dagli schiavi che non avevano capacità intellettuali”, sottolinea ancora.

Insomma, fatti non fummo per viver come bruti, come scrisse Dante qualche secolo dopo, ma qualcuno meno degli altri. Il filosofo ricorda infatti come il mondo greco e latino non fosse “un mondo egualitario: gli esseri umani erano diversi nell’essenza e il ruolo che si occupava (nella società, ndr) dipendeva dalla propria nascita. I migliori, quindi, non lavoravano”.

Proseguendo il breve excursus, Saudino nota poi che il cristianesimo “ha in sé il rifiuto del lavoro” ed “esalta ancora un ozio, impiegato nella preghiera e nella purificazione dell’anima”. “Il lavoro fisico è lontano dall’orizzonte del cristianesimo”, anche perché impedirebbe di dedicarsi alle virtù cristiane (canto, matematica, musica, astronomia, retorica…). E quanto all’’ora et labora’, spiega il professore, si tratta di “un motto figlio di un lavoro comunitario, ‘nobilitato’ dalla necessità”.

Ma ancora a monte basti pensare ad Adamo ed Eva, passati dalla beatitudine del Paradiso terrestre, dove non lavoravano, alla dannazione di doversi guadagnare la pagnotta ogni giorno. “Il lavoro è la conseguenza della caduta dall’Eden”, afferma Saudino. Eden che l’uomo ambisce da sempre a recuperare, come per l’Eldorado dei conquistadores che il filosofo cita: la ricerca dell’oro, alla base anche della spedizione di Colombo, altro non è che un mezzo per affrancarsi dal lavoro, “la prospettiva del bengodi che allontana ogni necessità di lavorare”.

Saudino conclude il primo mito con Thomas More, contrario all’ozio nobiliare, “che 500 anni fa raccontava l’utopia di un’isola perfetta, in cui la giustizia è gestita socialmente e si lavora poco per lavorare tutti. Sei ore, e il resto è dedicato al riposo, alla famiglia, e poi all’ozio utile, cioè lo studio della matematica, dell’astronomia”.

Il successo (e il Paradiso) si misura col lavoro

Il secondo mito affrontato da Saudino è il lavoro come metro del successo, “quello degli imprenditori che vivono per lavorare”. Una ‘rivoluzione’ che ha origine nel mondo svizzero e tedesco, dove si sviluppano luteranesimo e calvinismo. Senza entrare nella complessità della vicenda, il professore ricorda che secondo Max Weber è il capitalismo a essere generato da queste nuove ‘visioni’ del rapporto con Dio, e non il contrario. Nel calvinismo l’uomo nasce già predestinato al Paradiso o all’Inferno, a insindacabile giudizio di Dio, cui l’essere umano è totalmente assoggettato.

Ma durante la vita è possibile avere degli ‘indizi’ su che fine si farà nell’aldilà, e questi indizi vanno cercati proprio nel successo personale, che diventa segno di favore divino: una famiglia numerosa, il lavoro e il denaro. Ecco dunque svilupparsi un’etica del lavoro molto diversa da quella dei cattolici, non a caso disprezzati in quanto scansafatiche e inetti. Anche dall’altra parte dell’Oceano dato che, sottolinea Saudino, gli Stati Uniti nascono da una prima ondata immigratoria di calvinisti ben armati di Bibbia e ferme convinzioni.

Ma il problema finale di questo mito, conclude il filosofo, è che “dopo aver passato una vita a lavorare, della vita si perde il senso”.

Il lavoro è sociale?

C’è poi un terzo mito: quello che dal lavoro derivi una coscienza collettiva che conduce alla lotta e all’emancipazione, anche femminile: “La rivoluzione industriale porta milioni di persone a lavorare tutte insieme, entrando in fabbrica al mattino e uscendo la sera: erano condizioni di lavoro pessime, violentissime, che portano l’idea che tutti insieme ce ne si possa liberare, perché il lavoro è sfruttato, e i grandi imprenditori lo utilizzano per accumulare capitale”.

Ma oggi cosa rimane di questo mito? Nulla, secondo Saudino, tutto è stato spazzato via dalla mancanza di empatia e dall’individualismo. “La solidarietà è morta e sepolta”, dice il filosofo portando ad esempio i ‘macedonia man’, le persone che sulle navi da crociera non fanno altro che tagliare frutta per 12 ore al giorno a favore di turisti ignari anche solo dell’esistenza di una mansione simile. Ma pure il corriere Amazon, in ritardo, è oggetto di critiche e insulti senza nemmeno che ci sia chieda in che condizioni lavori.

Insomma, “l’idea che lavorando insieme si potesse migliorare le condizioni di tutti è scomparsa”, annegata in una guerra tra poveri dove “siamo tendenzialmente in competizione con gli altri lavoratori”. Oggi “il lavoro è sociale, ma il profitto è privato”, conclude il filosofo.

Il lavoro ‘nobilita’?

L’ultimo mito che Saudino sfata, nel suo intervento al Festival Nobìlita, è più recente, ed è quello che “il lavoro tecnologico-digitale faccia guadagnare molto e avere tanto tempo libero”. Fino a pochi anni fa si pensava che fosse possibile costruire il proprio futuro attraverso le lingue e le materie STEM, “perché lì stavano il profitto e i salari più alti, con tanto tempo libero per gli eletti che potevano accedere a quei lavori di alto livello”.

“Questo mito è propugnato ancora oggi, sia da quelli bravi che dai fuffa guru che vivono a Dubai”, spiega Saudino che però avverte: “La tecnologia non libera il tempo”. Anche le materie scientifiche e tecnologiche non sono più una garanzia, e la direzione da prendere nella propria vita è spesso confusa. “Il mito del lavoro sta diventando un mondo in cui la maggior parte delle persone ha poco tempo, si vive per lavorare, ma non facendo tutti questi soldi, bensì per arrivare a fine mese”, rimarca il professore.

Con l’aggravio del senso di colpa: quello di essere dei ‘falliti’, di non essere riusciti ad aderire a quei modelli proposti e imposti dalla società, a partire dal mito americano che, se vuoi, puoi farcela.

“In tutto questo c’è una voragine in cui avrebbe dovuto inserirsi la politica, per governare questi cambiamenti, come per esempio l’IA”, mentre invece “non si pone, la politica, il problema della governance dell’intelligenza artificiale (chi la possiede e che cosa vuole farci)”.

Il vuoto del lavoro: giovani senza miti, anziani senza scopo

“Il lavoro non è più finalizzato all’uomo, a farlo vivere meglio, ma al profitto delle grandi imprese”, continua Saudino aggiungendo che il lavoro ormai “non ha una dimensione umana: è post-umano. Non c’è un capitalismo di investimento di medio-lungo periodo, è tutto una corsa a ottimizzare i guadagni nel breve”.

Il filosofo tira le somme: “Le persone più anziane non vedono l’ora di uscire dal mondo del lavoro. I giovani, invece, non hanno alcun modello per entrarci, nessun obiettivo. Non hanno più nessun mito correlato al lavoro”.

Ma a fronte di questa situazione che appare desolante non dobbiamo arrenderci, invita Saudino, perché “lo status quo si nutre della rassegnazione delle persone”. E invece “abbiamo bisogno di mettere il lavoro al centro della dimensione politica e culturale”, parlandoci e stando insieme, “perché non possiamo riuscirci stando fermi nelle nostre case”. In definitiva, conclude, “se noi pensiamo che la storia non sia un terreno di protagonismo anche delle masse popolari, la stiamo consegnando a pochi deus ex machina, i Bill Gates, i Trump, gli Xi Jinping. E questo non possiamo permetterlo”.

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