L’Intelligenza artificiale può prevedere un arresto cardiaco? A chiederlo sono i ricercatori di un ampio studio pubblicato sulla rivista Resuscitation Plus negli scorsi giorni che ha analizzato 197 ricerche scientifiche e ha mappato il ruolo dell’intelligenza artificiale (Ai) nella gestione dell’arresto cardiaco.
Cosa è emerso? La revisione ha evidenziato come l’Ai sia utilizzata per prevedere il rischio di arresto cardiaco, classificare i ritmi cardiaci e fornire prognosi post-rianimazione, con prestazioni spesso superiori rispetto ai metodi tradizionali.
Nonostante i risultati promettenti, la ricerca sottolinea che l’applicazione clinica è ancora limitata e richiede validazioni prospettiche, maggiore equità nei dati e un’integrazione più fluida nei flussi di lavoro ospedalieri.
Lo studio che analizza il ruolo dell’Ai nella rianimazione
Lo studio è stato condotto da un team internazionale coordinato da Federico Semeraro (presidente dell’European Resuscitation Council, ERC) ed Elena Giovanna Bignami (presidente della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva, Siaarti).
La revisione ha esaminato 197 studi pubblicati fino al 2024, classificandoli per metodologia, risultati e applicazioni pratiche. Secondo la ricerca, l’Ai è impiegata principalmente per:
• Prevedere il rischio di arresto cardiaco, aiutando i medici a identificare pazienti a rischio prima che l’evento si verifichi.
• Classificare i ritmi cardiaci, migliorando l’interpretazione delle aritmie e guidando le decisioni sulla defibrillazione.
• Valutare le prognosi post-rianimazione, aiutando i clinici a prevedere il recupero neurologico e la sopravvivenza.
Quali tecnologie vengono usate?
Le tecnologie più utilizzate sono:
• Machine learning (50% degli studi): modelli statistici avanzati per analizzare enormi quantità di dati e generare previsioni.
• Deep learning (40%): reti neurali complesse impiegate soprattutto per analizzare dati, valori e immagini mediche.
• Natural language processing (Nlp): strumenti per analizzare le chiamate di emergenza, velocizzando il riconoscimento dell’arresto cardiaco.
Difficoltà e sfide da superare
Lo studio ha evidenziato alcuni problemi che devono essere risolti prima di una reale applicazione:
• Mancanza di studi prospettici: il 90% degli studi analizzati è retrospettivo, mentre solo 16 studi erano prospettici e due randomizzati, indicando la necessità di più test clinici avanzati.
• Validazione esterna limitata: pochi modelli sono stati testati in ambienti clinici reali.
• Equità nei dati: molte ricerche provengono da paesi ad alto reddito (USA, Corea del Sud, Giappone), quindi i modelli potrebbero non adattarsi bene a popolazioni diverse.
• Difficoltà nell’integrazione: l’IA deve essere incorporata nei flussi di lavoro ospedalieri senza rallentare le decisioni dei medici.
Il futuro dell’Ai nella telemedicina per un migliore accesso alle cure
L’intelligenza artificiale non solo promette di migliorare la gestione dell’arresto cardiaco, ma può anche contribuire alla sostenibilità del sistema sanitario. Grazie alla possibilità di automatizzare l’analisi dei dati, ottimizzare le risorse e migliorare la tempestività degli interventi, l’Ai potrebbe ridurre i costi operativi e il consumo di risorse ospedaliere, alleviando il carico sulle strutture sanitarie.
Un aspetto innovativo è l’uso dell’Ai nella telemedicina, che permette di riconoscere precocemente segnali di allarme in pazienti a rischio, anche da remoto. Grazie a dispositivi indossabili e sistemi di monitoraggio avanzati, i dati possono essere analizzati in tempo reale da algoritmi predittivi, consentendo ai medici di intervenire prima che si verifichi un arresto cardiaco. Questo approccio è particolarmente utile per pazienti in aree rurali o con difficoltà di accesso a strutture specialistiche, democratizzando le cure e garantendo un’assistenza tempestiva su larga scala.
L’Ai offre, quindi, opportunità straordinarie per migliorare la gestione dell’arresto cardiaco, ma i suoi limiti la rendono ancora lontana da un’implementazione su larga scala. Per trasformare questa tecnologia in uno strumento clinico efficace, servono studi più robusti, maggiore trasparenza nei dati e una collaborazione tra esperti di medicina e tecnologia.