Il divario salariale di genere continua a essere uno dei temi più discussi nel panorama socio-economico italiano. Ma se in Italia si può parlare di una diminuzione relativa, rispetto al passato, delle disuguaglianze salariali tra uomini e donne, la realtà resta ben più complessa di quanto i numeri suggeriscano. Il Rapporto mondiale sui salari dell’Ilo, l’organizzazione internazionale del lavoro, non solo conferma la disparità retributiva esistente, ma denuncia anche la crescente ingiustizia che permea la struttura del mercato del lavoro. Da un lato, le donne guadagnano ancora il 9,3% in meno rispetto agli uomini, un dato tra i più bassi dell’Unione Europea, ma non certo esente da problematiche strutturali. E dall’altro, emerge la fotografia di un Paese che, pur se in lenta ripresa, continua a soffrire perdite salariali enormi che minano la coesione sociale e il benessere collettivo.
Un divario che persiste
Nel 2006, le donne guadagnavano il 10,2% in meno rispetto agli uomini; oggi, quel divario è ridotto al 9,3%. Un risultato che potrebbe sembrare positivo se non fosse per il contesto più ampio in cui questa riduzione si inserisce. L’Italia si distingue infatti per avere uno dei divari più bassi in Europa, ma questa riduzione va letta in un quadro che rimane critico per le lavoratrici, in particolare quelle a basso reddito. Il Rapporto Ilo ci racconta che ben il 52% dei lavoratori italiani a basso salario sono donne, una cifra che evidenzia non solo la persistente disparità di genere, ma anche il fatto che molte di queste lavoratrici si trovano a fronteggiare una duplice discriminazione: quella salariale e quella legata alle condizioni di lavoro precarie.
Eppure, nonostante i segnali di miglioramento, se guardiamo più da vicino le tendenze degli ultimi 17 anni, la situazione appare meno rosea di quanto sembri a prima vista. Tra il 2008 e il 2024, l’Italia ha visto le perdite più gravi in termini di potere d’acquisto rispetto a molti altri Paesi avanzati del G20, con un calo del 8,7% dei salari reali. Le perdite sono state particolarmente gravi dopo la crisi finanziaria mondiale, tra il 2009 e il 2012, e il divario non si è ancora completamente colmato. La continua erosione dei salari e l’aumento della precarietà hanno accentuato l’effetto regressivo sulla qualità della vita delle famiglie italiane, con conseguenze dirette sulla spesa e sul benessere dei cittadini.
L’Italia in ripresa, ma solo parzialmente
Nel 2024, finalmente, sembra esserci un’inversione di tendenza: i salari reali sono aumentati in media del 2,3%, rispetto ai cali del 3,2% e 3,3% registrati nei due anni precedenti. Ma la ripresa, purtroppo, non è stata sufficiente a compensare le perdite accumulate e a mettere realmente in moto la macchina della crescita economica. La ripresa, infatti, non è stata omogenea: mentre in alcuni settori si è registrato un lieve miglioramento, il sistema delle piccole e medie imprese, che rappresenta il cuore pulsante dell’economia italiana, ha continuato a lottare per far fronte alle difficoltà di un mercato del lavoro che, tra precarietà e flessibilità, non consente una vera stabilità salariale. Il divario retributivo, quindi, resta un tema caldo. Eppure, questo aumento, pur ben accolto da molti, non basta a colmare il gap che il Paese continua a sperimentare rispetto ad altre nazioni dell’Europa.
Eppure, la lettura dei dati non può non sollevare interrogativi: come mai l’Italia, pur avendo raggiunto un tasso di crescita salariale che ha superato di 1,4 punti percentuali quello di altri Paesi avanzati del G20, non è riuscita a ridurre il divario salariale? La risposta, secondo alcuni esperti, risiede nel fatto che la crescita salariale non è uniforme e non ha colpito in modo significativo le categorie più vulnerabili del mercato del lavoro: le donne, i giovani e coloro che provengono da contesti svantaggiati. In altre parole, mentre i lavoratori con contratti più stabili e qualificati vedono un miglioramento, coloro che sono alle prese con contratti precari e part-time continuano a pagare il prezzo più alto.
La crisi salariale
La crisi salariale in Italia ha radici profonde. Secondo l’Unione Sindacale di Base, la responsabilità va ricercata nella precarizzazione del lavoro, nella crescente diffusione di contratti a tempo determinato, nella cosiddetta ultra-flessibilità del mercato del lavoro e nel mancato reinvestimento dei profitti aziendali. Le imprese italiane, infatti, hanno potuto contare su un abbassamento dei diritti dei lavoratori per aumentare la produttività, un meccanismo che, alla lunga, ha determinato un impoverimento delle classi più vulnerabili.
“Le aziende italiane non hanno dovuto reinvestire un centesimo dei loro profitti”, denunciano i sindacati, “e la maggiore produttività è stata ricavata solo abbassando diritti e salari di chi lavora”. Questo scenario, definito “disastro salariale”, ha minato la coesione sociale e impedisce il rilancio economico del Paese, che, nonostante i segnali di ripresa, continua a soffrire una perdita del potere d’acquisto che non sembra destinata a risolversi nel breve periodo.
I dati Ilo sono una fotografia impietosa: mentre i governi di altri Paesi stanno puntando su investimenti in infrastrutture, innovazione e politiche salariali più eque, l’Italia sembra continuare a navigare in un mare di incertezze. Le misure di austerità, un sistema contrattuale che non risponde alle esigenze dei lavoratori e l’assenza di un salario minimo universale, fanno il resto. Eppure, anche in questo scenario critico, il Paese è stato in grado di registrare un piccolo miglioramento, che potrebbe segnare l’inizio di un cambiamento se accompagnato da politiche economiche più inclusive.
Ma la vera domanda è: le riforme del governo saranno sufficienti a dare una svolta? Gli esperti sono scettici, e le critiche dei sindacati sono feroci: “Mentre tutta l’Europa, compreso il nostro governo, pensa al riarmo attraverso i soldi pubblici, la vergogna del rapporto Ilo è solo un ulteriore tassello su cui costruire una battaglia priva di ambiguità”, affermano dall’Usb Le proposte sono chiare: rinnovare i contratti, aumentare salari e pensioni, evitare ulteriori spese militari inutili e destinare maggiori risorse per il rilancio economico, senza dimenticare l’introduzione di misure che possano effettivamente contrastare il dumping salariale e tutelare i diritti dei lavoratori.
Insomma, la questione salariale in Italia non è solo una questione di numeri. È una questione di giustizia sociale, di diritti e di uguaglianza. Le perdite di salario, l’aumento delle disuguaglianze e la disparità tra generi, sono questioni che vanno ben oltre le statistiche: toccano la vita di milioni di italiani. Se da un lato si registrano segnali positivi, dall’altro la ripresa è troppo lenta e il divario è ancora troppo ampio. Come dichiarato da Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, “Ci batteremo affinché i contratti vengano rinnovati per garantire giusti salari, diritti e tutele”. Una battaglia che, al di là dei numeri, è destinata a ridisegnare l’equilibrio economico e sociale dell’Italia.