Nel 2025, la sigaretta in Italia è ancora un’abitudine consolidata. Per alcuni un rifugio, per altri un piacere, ma soprattutto un comportamento che ha resistito a leggi, campagne e divieti. Nonostante decenni di prevenzione e una consapevolezza scientifica ormai indiscutibile sui danni da fumo, un italiano su quattro continua a fumare. Nel frattempo, cambia lo scenario internazionale: in molti Paesi europei il costo del pacchetto è salito oltre gli 11 euro grazie a una tassazione mirata, con risultati concreti sul fronte della riduzione dei consumi. E l’Italia? Resta tra le economie con un prezzo medio ancora basso, dove i pacchetti di sigarette si vendono, nella maggior parte dei casi, tra i 5 e i 6 euro.
Alla vigilia della Giornata Mondiale senza Tabacco, i dati pubblicati dalla Fondazione Umberto Veronesi e dall’Istituto Superiore di Sanità riaprono il dibattito su un tema sensibile: aumentare in modo significativo le tasse sul tabacco per frenare la dipendenza e alleggerire il carico sanitario. Secondo l’indagine condotta da AstraRicerche su un campione rappresentativo, il 60% degli italiani si dice favorevole a un aumento deciso della tassazione, portando il costo di un pacchetto oltre gli 11-12 euro. Non solo: un terzo dei fumatori sostiene che smetterebbe se il prezzo raddoppiasse, un altro terzo ridurrebbe i consumi.
Gli esempi europei suggeriscono che l’approccio fiscale può avere una ricaduta immediata. Dove il costo delle sigarette è più alto – come in Irlanda e Francia – il numero di fumatori è sceso sensibilmente. Tuttavia, il dibattito resta aperto: aumentare le tasse ha anche effetti redistributivi, e potrebbe colpire più duramente le fasce economicamente più fragili, tra le quali il tabagismo è più diffuso. Ma è proprio in questi segmenti che, secondo alcuni studi, l’impatto del prezzo è più efficace nel modificare i comportamenti. Le risorse raccolte, inoltre, potrebbero essere reindirizzate in maniera mirata verso programmi di prevenzione e servizi sanitari. Il nodo, quindi, non è solo economico, ma di visione strategica.
Le nuove frontiere del fumo
Il volto del fumatore sta cambiando. Mentre cala (a fatica) la percentuale di fumatori tradizionali, crescono le nuove forme di consumo, soprattutto tra i giovanissimi. Sigarette elettroniche, dispositivi a tabacco riscaldato, bustine di nicotina: il lessico della dipendenza si arricchisce e si complica, intercettando fasce d’età sempre più precoci. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, il 70% degli studenti delle scuole superiori ha fatto uso combinato di più prodotti contenenti nicotina nell’ultimo mese. Un fenomeno definito “policonsumo”, che vede gli adolescenti passare indistintamente da un dispositivo all’altro, abbattendo la distinzione netta tra fumatore e non fumatore.
Già tra gli 11 e i 13 anni, il 7,5% degli studenti ha dichiarato di aver fumato o svapato. Tra i 14 e i 17 anni, le percentuali aumentano in modo drastico: oltre il 40% ha consumato sigarette tradizionali, circa il 35% ha usato sigarette elettroniche, altrettanti hanno sperimentato il tabacco riscaldato. In crescita anche l’uso delle cosiddette “nicotine pouches”, bustine da masticare o sciogliere in bocca, provate da quasi un adolescente su dieci. L’accesso ai prodotti, nonostante i divieti di vendita ai minori, è spesso facilitato dall’acquisto diretto nei bar o tabaccai, senza che il venditore opponga rifiuto. I più giovani dichiarano di riceverli in regalo da amici o fratelli maggiori.
A livello educativo e culturale, emerge un dato rilevante: l’80% degli studenti delle scuole superiori afferma di vedere quotidianamente compagni o docenti fumare o svapare all’interno o nei pressi dell’edificio scolastico. La scuola – potenziale strumento di prevenzione – diventa così un ambiente dove il comportamento rischioso viene spesso normalizzato. La sfida, in questo contesto, è duplice: da un lato garantire l’effettiva applicazione delle normative già esistenti; dall’altro, promuovere un nuovo paradigma educativo capace di tenere il passo con l’evoluzione del mercato del fumo. Un mercato che, per quanto regolato, continua a proporre alternative apparentemente “light”, ma non prive di conseguenze sul piano della dipendenza.
Smettere di fumare in Italia oggi
Se l’Italia ha raggiunto il 24% di fumatori adulti, non è perché manchino le informazioni sui rischi del fumo. È perché, nel concreto, smettere resta un percorso difficile e spesso solitario. Secondo il rapporto Eurispes, meno di 4 fumatori su 10 hanno mai tentato seriamente di smettere. La maggior parte lo ha fatto senza supporto esterno, mentre solo una minoranza si è rivolta a un medico o a un centro antifumo. I risultati sono coerenti con questa modalità: nella stragrande maggioranza dei casi, il tentativo fallisce. Solo il 12% riesce ad abbandonare il fumo per almeno sei mesi.
In questo quadro, il ruolo dello Stato – nella promozione di un sistema capillare di supporto – appare ancora parziale. I centri antifumo in Italia sono 223, concentrati prevalentemente al Nord, mentre le chiamate al Telefono Verde dell’Istituto Superiore di Sanità sono in calo (6497 nel 2024, rispetto alle oltre 6900 dell’anno precedente). La domanda di aiuto esiste, ma non sempre trova risposte. Una quota crescente di fumatori guarda con interesse ai prodotti alternativi: sigarette elettroniche, tabacco riscaldato, dispositivi senza combustione. Oltre il 50% si dichiara disposto a cambiare se ci fossero prove scientifiche della minore pericolosità.
Tuttavia, il quadro scientifico su questi prodotti resta ancora oggetto di dibattito. Se da un lato potrebbero rappresentare un’opzione per ridurre i danni nei forti fumatori, dall’altro rischiano di essere percepiti – specie dai più giovani – come una porta d’ingresso “soft” verso la dipendenza. La posizione di molti esperti è prudente: senza un approccio regolato e guidato, il rischio è che lo “switch” si trasformi in policonsumo o sostituzione parziale, più che in vera disassuefazione. Il cambiamento deve quindi avvenire all’interno di un quadro di informazioni chiare, accessibili, verificate. E soprattutto, inserito in una strategia che non trascuri il sostegno umano e psicologico.
Tra norme, educazione e strategie di lungo termine
Aumentare il prezzo delle sigarette, regolare i nuovi prodotti, promuovere percorsi di disassuefazione: ogni tassello può contribuire alla riduzione del fumo, ma nessuno è sufficiente da solo. È l’insieme delle politiche pubbliche, la loro coerenza e la loro integrazione, a fare la differenza. In questo senso, l’Italia sconta un ritardo evidente rispetto ad altri Paesi europei. Le misure adottate – come il divieto di fumo nei luoghi pubblici o le campagne istituzionali – hanno portato risultati parziali ma non strutturali. I progressi si sono rallentati e, nel frattempo, il fenomeno si è evoluto.
Un esempio emblematico arriva da Milano e Torino, dove negli ultimi anni sono stati introdotti divieti di fumo all’aperto a distanza ravvicinata da altre persone. Provvedimenti simbolici, certo, ma anche strumenti potenzialmente educativi. Tuttavia, il 67% degli intervistati non crede che possano avere reale efficacia. Questo scetticismo riflette un problema più ampio: l’assenza di una narrazione istituzionale forte, che accompagni i divieti con azioni concrete, investimenti nella prevenzione, formazione degli operatori sanitari, coinvolgimento delle scuole.
Anche sul fronte del fumo passivo, i dati indicano progressi ma con margini di miglioramento. Il rispetto del divieto nei luoghi di lavoro è oggi elevato (84%), ma resta meno uniforme nel Sud. In ambito domestico, l’11% degli italiani consente di fumare in casa, una percentuale che scende solo lievemente (8%) nelle abitazioni con bambini piccoli. Sono segnali di una cultura che cambia lentamente, ma che può accelerare se sostenuta. La legge antifumo del 2005 ha mostrato che un intervento normativo deciso può trasformare comportamenti radicati. Oggi, quel tipo di coraggio normativo sembra necessario per affrontare le nuove sfide del fumo digitale, del policonsumo giovanile, della disaffezione verso il tentativo di smettere.
Il principio non è punitivo, ma preventivo: disincentivare il consumo, proteggere i minori, ridurre il carico sanitario. E soprattutto, restituire centralità al diritto a una salute libera da fumo, in ogni sua forma.