Aurelio De Laurentiis ha fatto una riflessione, come sempre non banale, sulla gestione del lavoro in Italia, facendo un confronto con quanto avviene in Arabia Saudita, dove il suo Napoli ha alzato la Supercoppa italiana battendo per 2-0 il Bologna degli americani Saputo.
Alla vigilia della finalissima, il presidentissimo azzurro, tra i più importanti imprenditori italiani, ha messo l’accento sull’amministrazione della cosa pubblica: “Quando si sposa la tradizione con un assetto di modernità si va sempre oltre”, ha detto Adl esaltando il modello di Riyadh: “Qui ci sono due milioni di operai che lavorano su tre turni, 24 ore su 24. Mi piacerebbe che accadesse anche a Napoli, a Roma, in Italia. Invece abbiamo ancora residui bellici nelle nostre città, a testimonianza di quanto sia incapace la gestione della res publica. Il governo italiano dovrebbe rendersene conto”, ha detto l’imprenditore che da anni propone grandi cambiamenti per il sistema calcio e, più in generale, per il Paese.
Le sue parole inducono a riflettere anche sul tema della scarsa produttività aziendale, che per alcuni è il più delicato del nostro Paese in quanto incide su salari, prelievo fiscale e, indirettamente, sulla crisi demografica. Un problema che nasce come microeconomico e diventa inesorabilmente macroeconomico, togliendo ossigeno alle imprese, con effetti a cascata sulla società tutta, essendo l’Italia una “Repubblica fondata sul lavoro”.
D’altra parte, gli studi scientifici e sociologici dimostrano che un numero eccessive di ore di lavoro può avere gravi effetti sulla salute dei lavoratori e sulle loro scelte, incidendo negativamente sulla qualità della vita. Non a caso, il gap di produttività italiano affonda le radici non solo nei modelli di lavoro, ma anche nel ritardo tecnologico del Paese rispetto agli altri Paesi sviluppati.
Quali sono le differenze principali tra la gestione del lavoro in Italia e quella in Arabia Saudita?
Le differenze nella gestione del lavoro tra Italia e Arabia Saudita sono profonde e strutturali.
In Italia l’orario massimo settimanale è fissato a 40 ore, con straordinari regolamentati e un limite teorico di 48 ore complessive su sette giorni. In Arabia Saudita, invece, la settimana lavorativa standard arriva fino a 48 ore (8 ore al giorno per sei giorni), con una particolarità: non esiste un limite massimo alle ore di straordinario, che vengono retribuite al 150% ma possono essere richieste senza tetto. Durante il Ramadan, gli orari scendono a 36 ore settimanali per i dipendenti musulmani, una flessibilità religiosa che non ha equivalenti occidentali.
Sul piano pratico, nei Paesi del Golfo è comune una pausa pomeridiana prolungata per evitare il caldo, mentre i turni possono coprire fasce orarie estreme (dalle 6 alle 22) senza le rigide tutele europee sui riposi giornalieri. La differenza cruciale sta nel bilanciamento: il sistema italiano privilegia (sulla carta) la tutela del lavoratore con vincoli stringenti, quello saudita punta alla massima flessibilità produttiva, scaricando sul privato la gestione dei ritmi.
Arabia Saudita, ritmi lavorativi e conseguenze sulla salute
Lavorare su tre turni diversi (mattino, pomeriggio, notte), senza avere una routine standard, ha conseguenze sanitarie pesanti che emergono soprattutto nel lungo periodo.
Il lavoro notturno e a rotazione interrompe i ritmi circadiani, ovvero l’orologio biologico interno che regola sonno, ormoni e funzioni metaboliche nell’arco delle 24 ore. Gli effetti immediati includono disturbi del sonno, stanchezza cronica e aumento del rischio di incidenti sul lavoro. Ma è sul lungo termine che il quadro si fa preoccupante: l’Agenzia nazionale francese per la salute (Anses) ha certificato che il lavoro notturno ha effetti comprovati sulla sindrome metabolica (un insieme di alterazioni che aumentano il rischio cardiovascolare), con possibili ricadute su obesità, diabete di tipo 2, malattie coronariche e alcuni tipi di cancro, e possibili legami con ipertensione e ictus.
Lo stress cronico da turni disallineati rispetto al ritmo naturale del corpo può portare, nel tempo, a conseguenze paragonabili a quelle del fumo di sigaretta. La salute mentale ne risente altrettanto: depressione, ansia e isolamento sociale si aggravano quando i turni compromettono la vita familiare e le relazioni.
Come la scarsa produttività incide sulla crisi demografica
D’altra parte, esiste un legame diretto e documentato tra bassa produttività aziendale e crollo delle nascite in Italia. La scarsa produttività italiana (aggravata dall’invecchiamento della forza lavoro) genera salari bassi che a loro volta disincentivano la natalità. A due anni dalla maternità, una donna italiana guadagna dal 10% al 35% in meno rispetto a quanto avrebbe guadagnato senza figli, mentre l’80,8% delle lavoratrici che pensano di lasciare il posto ha un impiego full time.
In questo contesto, il work-life balance resta una rarità: l’Italia è quart’ultima in Europa per equilibrio vita-lavoro, e le aziende italiane – con poche eccezioni tra le grandi imprese – vedono ancora la flessibilità come un ostacolo al profitto anziché un investimento. Risultato: la denatalità si autoalimenta, perché lavoratori stressati, scarsamente retribuiti e senza servizi per l’infanzia rimandano o cancellano l’idea di fare figli, riducendo ulteriormente la forza lavoro futura e la capacità produttiva del sistema.
Tirando le somme, diventa fondamentale aumentare la produttività aziendale senza aggravare le condizioni di salute dei lavoratori. Sembra utopia, eppure le ricerche indicano da tempo vari canali su cui è possibile intervenire:
– una più efficiente gestione del lavoro, che preveda in primis la rimozione di perdite di tempo inutili eppure strutturali in Italia;
– una implementazione più diffusa e consapevole delle nuove tecnologie (Ai in primis);
– una scelta più oculata delle figure apicali e manageriali delle aziende, che siano in grado di tenere l’impresa al passo con i tempi, rimuovendo gli ostacoli alla produttività.