Regno Unito “capitale” dello smart working

Secondo uno studio del King’s College London, i lavoratori britannici passano più tempo in smart working rispetto a qualsiasi altro paese europeo
28 Maggio 2025
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Smart Working Uk Canva

Il Regno Unito è ufficialmente la “capitale europea dello smart working“. Questo è quanto emerso da un ampio studio condotto dal King’s College London, pubblicato nel maggio 2025 e guidato dal ricercatore Cevat Aksoy. L’indagine ha analizzato le abitudini lavorative in 40 Paesi nel mondo, rivelando che i lavoratori britannici trascorrono in media 1,8 giorni a settimana lavorando da casa. Un dato che supera di gran lunga la media globale di 1,3 giorni e colloca il Regno Unito davanti a tutte le nazioni europee.
A livello globale, solo il Canada registra una media superiore, con 1,9 giorni. Al contrario, in Corea del Sud si lavora da casa solo mezza giornata a settimana, e in Paesi come Grecia e Cina appena 0,6 giorni.

La ricerca: quale impatto sulla produttività?

La ricerca è stata promossa dal Policy Institute del King’s College London, con lo scopo di valutare l’impatto a lungo termine delle abitudini lavorative nate durante la pandemia. Lo studio ha coinvolto decine di migliaia di lavoratori, le cui esperienze sono state raccolte tramite sondaggi longitudinali condotti tra il 2022 e il 2025. L’analisi si è premurata di valutare non solo la frequenza dello smart working, ma anche le sue conseguenze su produttività, benessere, soddisfazione e dinamiche aziendali.

Secondo il ricercatore Aksoy, “lo smart working non è solo una conseguenza del Covid: è ormai una caratteristica strutturale del mercato del lavoro britannico”. La formula più diffusa? Il modello ibrido, con casa il lunedì e il venerdì e presenza in ufficio nel cuore della settimana.

Il dibattito sullo smart working si accende soprattutto sul tema della produttività. Personalità come Lord Rose, ex Ceo di Asda, hanno criticato duramente il lavoro da remoto, affermando che “nuoce allo sviluppo personale” e crea una generazione “non abituata al vero lavoro”. Secondo quanto riporta il The Telegraph, anche Jamie Dimon (Jp Morgan) e Bob Iger (Disney) si sono espressi contro la remotizzazione del lavoro, lamentando un calo nella creatività e nella coordinazione.

Tuttavia, Aksoy controbatte con dati alla mano: “La ricerca non evidenzia effetti negativi significativi sulla produttività nei modelli ibridi. Anzi, si osservano vantaggi in termini di retention, benessere e soddisfazione dei dipendenti.”

Il caso Italia

E in Italia? Secondo i più recenti dati Istat (2024), solo il 12,5% dei lavoratori italiani lavora da remoto almeno un giorno a settimana, con una media che si attesta attorno a 0,8 giorni – meno della metà rispetto al Regno Unito.

Durante la pandemia, lo smart working aveva raggiunto livelli record in Italia, coinvolgendo oltre 8 milioni di lavoratori. Ma nel post-emergenza, molte aziende – soprattutto nel settore pubblico – sono tornate rapidamente alla presenza fisica. Le ragioni principali includono una cultura del controllo, la mancanza di fiducia nei dipendenti e una scarsa digitalizzazione dei processi.

Secondo un report della Fondazione Adapt, in Italia lo smart working è visto ancora come un “privilegio” più che una modalità lavorativa standard. Inoltre, solo il 30% delle Piccole e medie imprese italiane ha introdotto policy strutturate per il lavoro ibrido, a fronte di oltre il 70% nel Regno Unito.

Smart working: opportunità o rischio?

I sostenitori del lavoro da remoto citano risparmi in termini di tempo e costi per i lavoratori, minori emissioni da trasporto, e un impatto positivo sull’economia locale (i consumi si spostano dai centri città ai quartieri residenziali).

Ma gli esperti mettono in guardia anche su effetti collaterali importanti, come l’isolamento sociale, i problemi di salute mentale (soprattutto tra i giovani), e le difficoltà nel trasmettere la cultura aziendale.

Verso un modello ibrido europeo?

Il Regno Unito sembra aver trovato una propria formula di smart working, trasformandola in un pilastro della sua nuova cultura lavorativa. L’Italia, al contrario, appare ancora indecisa tra ritorno al passato e modernizzazione.

Il futuro del lavoro – tra flessibilità, produttività e benessere – sarà probabilmente ibrido, ma per realizzarlo serviranno infrastrutture digitali adeguate, formazione manageriale, e soprattutto un cambio culturale. L’alternativa? Rischiare di restare spettatori di una trasformazione già in atto nel resto d’Europa.

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