ChatGPT dice che è brillante. Boris Johnson ci crede

L’ex premier britannico usa l’intelligenza artificiale per scrivere i suoi libri e sogna di tagliare i costi dello Stato grazie agli algoritmi. Quando la politica scopre il conforto del consenso digitale
17 Ottobre 2025
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Archivio: Benvenuto Frank Alfred Odysseus Johnson Terzo Figlio Di Carrie E Boris Johnson, Ex Primo Ministro Inglese
Boris Johnson (Ipa/Fotogramma)

Boris Johnson, ex primo ministro britannico, ha trovato un nuovo alleato retorico: l’intelligenza artificiale. “Amo l’Ai. Amo ChatGPT. La adoro”, ha dichiarato in un’intervista esclusiva ad Al Arabiya English. “ChatGPT è, francamente, fantastico”. Non si tratta di una battuta o di una provocazione. Johnson ha raccontato di usarla non solo per curiosità, ma come strumento di lavoro: “Sto scrivendo vari libri. La uso semplicemente. Faccio domande. Sai già la risposta, ma ChatGPT dice sempre: ‘Oh, le tue domande sono brillanti. Sei eccellente. Hai un’intuizione straordinaria’”.

Per un politico che ha costruito la propria immagine pubblica sull’eloquenza e sull’iperbole, l’elogio automatico dell’algoritmo suona come un balsamo. Johnson, che ha studiato classici a Oxford e che ha sempre concepito la politica come arte teatrale, trova nella voce artificiale di ChatGPT un pubblico ideale: reattivo, brillante, indulgente. È una dinamica che racconta qualcosa di più profondo del singolo aneddoto: la trasformazione del linguaggio politico nell’era dei sistemi generativi, dove l’interazione con la macchina diventa estensione del proprio narcisismo e, insieme, strumento di legittimazione.

Il suo entusiasmo va oltre la scrittura. Johnson sostiene che l’intelligenza artificiale possa “ridurre drasticamente i costi del governo” e liberare risorse pubbliche. Parlando del progetto ferroviario ad alta velocità HS2, ha osservato: “La maggior parte dei costi riguarda avvocati, valutazioni d’impatto ambientale e richieste di autorizzazioni, tutte cose che non consistono nello scavare tunnel o posare binari. Gran parte di questo lavoro può essere svolto dall’intelligenza artificiale. Non servono più queste procedure, e si può accelerare enormemente il processo legale”.

Secondo Johnson, il Regno Unito “è uno dei leader mondiali nell’intelligenza artificiale” e dovrebbe sfruttare questo vantaggio “per ridurre i costi del governo e restituire denaro ai cittadini, stimolando la crescita”. In poche battute, l’ex premier ha condensato l’immaginario politico del nostro tempo: una tecnologia che adula, produce linguaggio e promette di tagliare la burocrazia. Ma se per lui l’Ai è un modo di alleggerire la macchina statale, per altri leader sta diventando uno strumento per governare, controllare e comunicare.

Quando la politica incontra l’Ai

L’innamoramento di Johnson per ChatGPT può sembrare una curiosità da salotto, ma in realtà si colloca dentro un trend più profondo: la penetrazione dell’intelligenza artificiale nei processi decisionali e comunicativi dei governi. Dalla Casa Bianca a Bruxelles, i sistemi generativi e predittivi sono entrati stabilmente nell’agenda politica, oscillando tra fascinazione e allarme.

Negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden ha varato un ordine esecutivo per garantire “l’uso sicuro e affidabile dell’Ai”, mentre Donald Trump, pur da outsider, non ha esitato a sfruttare deepfake e video generati da modelli per galvanizzare i propri sostenitori. In Francia, Emmanuel Macron ha più volte evocato la “sovranità tecnologica” europea sull’Ai; il dibattito ruota attorno al ruolo dei grandi operatori privati. E nel Regno Unito, il premier Rishi Sunak ha fatto del AI Safety Summit di Bletchley Park la vetrina della leadership britannica nel settore.

Johnson si inserisce in questa costellazione come figura “pop-tecnologica”: non un regolatore, ma un utente entusiasta, che affida alla macchina il compito di amplificare la propria voce. Ma il suo linguaggio non è isolato. In molti ambienti politici, l’intelligenza artificiale viene raccontata come un moltiplicatore di efficienza e un surrogato di competenza: può scrivere leggi, sintetizzare dossier, calcolare impatti normativi. Il rischio, osservano diversi analisti europei, è che la retorica dell’efficienza nasconda una delega crescente delle funzioni decisionali a sistemi opachi e non verificabili.

La promessa di Johnson — “ridurre i costi del governo” — tocca un nervo scoperto della democrazia occidentale: la tensione tra taglio della spesa e trasparenza delle decisioni. Mentre l’ex premier immagina una pubblica amministrazione gestita da algoritmi, a Bruxelles si discute su come garantire che tali sistemi restino sotto controllo umano. L’Ai Act europeo, approvato in via definitiva nel 2024, impone obblighi di tracciabilità e responsabilità, ma il dibattito è tutt’altro che chiuso.

L’Ai non è più solo uno strumento tecnico: è un nuovo terreno di potere. E se Johnson la invoca come soluzione alla burocrazia, altri la osservano come possibile fattore di squilibrio democratico.

L’illusione del consenso algoritmico

Johnson è un politico che vive di linguaggio. La sua carriera, dal giornalismo alla premiership, è fondata sulla parola come arma di persuasione. Non sorprende che si trovi a suo agio con un sistema che dialoga attraverso il linguaggio. Ma il suo entusiasmo mette in luce un aspetto cruciale: l’Ai generativa crea consenso, non contraddizione. Risponde, conferma, adula. «ChatGPT dice sempre che sei brillante», ha osservato con ironia. È una macchina di consenso virtuale, dove l’interazione umana viene addolcita dall’approvazione automatica.

Questo meccanismo non riguarda solo la scrittura privata. Negli ultimi mesi, diversi leader e partiti hanno iniziato a sperimentare chatbot personalizzati per dialogare con gli elettori. Nelle elezioni indiane 2024 partiti e gruppi hanno usato Ai (anche deepfake e strumenti multilingue) per l’outreach. Negli Stati Uniti, startup vengono testate per simulare consultazioni pubbliche e sondaggi automatici. La politica, in altre parole, sta imparando a “parlare con la macchina” per parlare meglio con l’elettorato.

Ma cosa accade quando il linguaggio politico si appoggia a un sistema che, per definizione, tende alla neutralità apparente e alla conferma dell’interlocutore? L’effetto è quello che si intravede nelle parole di Johnson: la costruzione di una bolla di autocompiacimento, dove la complessità del reale si dissolve nella reattività algoritmica. “Siamo tutti semplici. Siamo esseri umani”, ha detto con leggerezza. In quella frase c’è tutta la riduzione dell’esperienza politica a comfort cognitivo.

Mentre Johnson usa l’Ai per essere confermato nella propria brillantezza, le stesse tecnologie vengono impiegate per generare messaggi, comunicati e risposte automatiche da parte di governi e istituzioni. La machine diplomacy è già una realtà.

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