Le sostanze tossiche del fast fashion sono un problema serio per la nostra salute. Lo sono per due motivi: l’elevato numero di materiali pericolosi presenti in questi prodotti e il crescente utilizzo ricorso al fast fashion della popolazione globale.
Negli ultimi anni, il fenomeno del fast fashion ha guadagnato una popolarità enorme, soprattutto grazie a piattaforme come Shein, Temu e AliExpress. I prezzi stracciati sono ciò che attraggono, ma dovrebbero essere soprattutto ciò che dovrebbe spaventare di queste piattaforme. Dietro a questi prezzi irrisori e alla disponibilità infinita di capi alla moda, si celano gravi problemi legati alla qualità dei prodotti e alle condizioni di lavoro nelle filiere produttive.
Il fast fashion è nemico della sostenibilità su più fronti: sotto il profilo ambientale richiede un enorme dispendio di risorse naturali e immette agenti inquinanti nell’atmosfera e nelle falde acquifere; sotto il profilo sociale spesso i capi di fast fashion vengono prodotti in Paesi dove le tutele dei lavoratori sono assenti o non dignitose. Si dice che “quando non paghi un servizio, tu sei il prodotto”. Ecco: quando paghiamo un capo pochi euro, probabilmente qualcuno è stato sfruttato dall’altra parte del mondo.
Inchieste sul fast fashion
Negli ultimi anni l’aumento della popolazione mondiale e dell’offerta di questi indumenti ha spinto il mercato del fast fashion. Al contempo, l’aumento della sensibilità per le tematiche sostenibili sta sollecitando l’attenzione delle organizzazioni, dei consumatori e delle autorità internazionali sul fast fashion.
Diversi report, tra cui un’indagine di Greenpeace del 2022, hanno sollevato preoccupazioni circa la presenza di sostanze tossiche nei capi venduti da questi colossi.
A metà agosto, le autorità di Seul hanno sequestrato centinaia di prodotti da vari rivenditori, tra cui Shein, AliExpress e Temu, per condurre test sulla sicurezza dei materiali. Su 144 capi e accessori esaminati, molti sono risultati contenere sostanze tossiche ben oltre i limiti consentiti dalla legge.
In particolare, alcune scarpe contenevano livelli di ftalati fino a 229 volte superiori al limite legale. Questi prodotti plastificanti, come sottolineato dagli esperti coreani, possono avere effetti devastanti sulla salute, compreso un potenziale impatto sulla fertilità e il rischio di cancro.
Durante le ispezioni, in alcuni capi sono stati rilevati anche alti livelli di formaldeide in alcuni capi, una sostanza chimica pericolosa che può causare irritazioni della pelle e problemi respiratori. Nonostante le rassicurazioni di Shein, che afferma di collaborare con agenzie di test internazionali per garantire la sicurezza dei propri prodotti, i risultati delle analisi mettono seriamente in dubbio tali affermazioni.
La reazione sui social e la conferma di Oko-Test
La scoperta delle autorità coreane ha suscitato un notevole scalpore sui social media, con influencer come Sean Christopher che hanno utilizzato piattaforme come TikTok e Instagram per sensibilizzare il pubblico sui rischi associati al fast fashion. Nonostante Shein abbia registrato un fatturato di 45 miliardi di dollari nel 2023, la crescente consapevolezza sui pericoli dei prodotti venduti da questi marchi potrebbe influenzare il comportamento dei consumatori soprattutto dopo l’ulteriore conferma sulla tossicità degli indumenti.
Il sito tedesco Oko-Test, infatti, ha recentemente condotto un’indagine sui prodotti Shein, ordinando 21 articoli, tra cui scarpe per neonati, abiti e accessori. I risultati dei test di laboratorio sono stati allarmanti: solo un terzo degli articoli ha ottenuto una valutazione sufficiente, mentre il resto è stato classificato come scadente o inadeguato. In un caso, un vestito per bambina con motivi di unicorno ha rilasciato antimonio tossico, una sostanza che può essere assorbita attraverso il sudore e causa problemi di salute.
Altri capi testati da Oko-Test contenevano dimetilformammide, una sostanza chimica tossica, e sandali con livelli elevati di piombo e cadmio, metalli pesanti estremamente pericolosi. Inoltre, i sandali da donna Shein contenevano ftalati vietati, con un contenuto 15 volte superiore al limite previsto dalla direttiva europea REACH. Non meno preoccupanti sono stati i risultati relativi ai sandali da uomo, nei quali sono stati trovati idrocarburi policiclici aromatici (IPA) a livelli fino a 22 volte superiori ai valori limite stabiliti dalla normativa europea.
Oltre alla presenza di sostanze tossiche, Oko-Test ha evidenziato problemi anche riguardo alla qualità e alla resistenza dei prodotti. Ad esempio, un paio di pantofole leopardate da donna si è rotto dopo appena 14mila passi, evidenziando la scarsa durabilità di molti prodotti a basso costo. Questo dato offre un ulteriore spunto di riflessione: siamo sicuri che acquistando capi di fast fashion si risparmi?
Il fast fashion, ovvero l’illusione di spendere meno
L’illusione di risparmiare denaro acquistando capi di fast fashion si scontra con la realtà di una maggiore spesa a lungo termine. I capi di abbigliamento prodotti da aziende come Shein, Temu e altre del settore, pur essendo venduti a prezzi estremamente bassi, sono spesso di qualità scadente e destinati a durare poco. Questa durata ridotta costringe i consumatori a rimpiazzare frequentemente i vestiti, aumentando la spesa complessiva. In pratica, si utilizzano materiali scadenti e si spende di più rispetto a dei capi non firmati ma comunque sostenibili. Il fatto che questa spesa sia “rateizzata” illude il consumatore che si concentra sul singolo acquisto.
Uno studio del Bureau of Labor Statistics negli Stati Uniti ha rilevato che la spesa media annuale per abbigliamento è di circa 1.604 dollari per famiglia. Sebbene questa cifra possa sembrare gestibile, la spesa ricorrente per sostituire i capi usurati supera di gran lunga il costo iniziale di investire in abbigliamento di qualità superiore e più duraturo.
In Gran Bretagna, si stima che ogni anno si perdano oltre 500 miliardi di dollari a causa dell’utilizzo insufficiente degli abiti e della mancanza di riciclo.
Insomma, il vecchio adagio per cui “chi più spende, meno spende” è pienamente confermato.
L’impatto ambientale del fast fashion
Il fast fashion è uno dei settori più dispendiosi per l’ambiente a causa dell’elevato consumo di risorse naturali e dell’inquinamento generato lungo tutta la filiera produttiva. Uno degli sprechi più significativi riguarda l’acqua: per produrre un solo capo di abbigliamento in cotone, come una t-shirt, sono necessari circa 2.700 litri d’acqua, l’equivalente di quanto una persona beve in due anni e mezzo. A livello globale, il fast fashion è responsabile del 20% dello spreco idrico totale, il che rappresenta un problema particolarmente grave in regioni già afflitte da scarsità di acqua.
Inoltre, il settore è responsabile del 10% delle emissioni globali di gas serra, più di quelle prodotte dall’intero settore dei trasporti aerei e marittimi combinati. La produzione di tessuti sintetici, come il poliestere, che è largamente utilizzato nel fast fashion, è particolarmente dannosa: ogni lavaggio di questi capi rilascia microfibre di plastica nell’acqua, contribuendo a un inquinamento plastico che si stima superi i 500.000 tonnellate di microfibre riversate negli oceani ogni anno.
L’impatto ambientale non si ferma alla produzione. La cultura dell’usa e getta, incentivata dai prezzi bassi e dalle collezioni sempre nuove, porta a un enorme spreco di risorse. Si stima che l’85% dei capi acquistati finisca in discarica entro un anno, contribuendo all’accumulo di rifiuti tessili e alle emissioni di metano, un potente gas serra, durante la decomposizione.
I rischi per la salute confermati per ultimo dallo studio di Oko-Test sono solo l’ultimo tassello di un settore sempre più ostile per l’ambiente, per l’essere umano e persino per il portafoglio.