Sostenibilità al bivio: il Green Deal tra autonomia strategica e nuovi equilibri industriali

All’evento Adnkronos Q&A “Sostenibilità al bivio”, Carlo Corazza, Enrico Giovannini e Brando Benifei delineano un’Europa chiamata a scegliere tra semplificazione e strategia industriale, tra realismo economico e ambizione verde
16 Ottobre 2025
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Bandiere Ue

Il Green Deal europeo è diventato un fronte aperto: tra chi lo vuole correggere e chi teme che rinunciarvi costi più del mantenerlo. Dalle bollette ai posti di lavoro, dagli investimenti industriali ai rapporti geopolitici, la transizione verde è ormai il centro del confronto politico ed economico. Negli ultimi mesi il dibattito si è polarizzato come raramente accade su un tema “tecnico”. Da un lato, governi e forze politiche che parlano di “ideologia del Green Deal” e invocano un “superamento” di alcune norme; dall’altro chi vede nella decarbonizzazione una piattaforma economica prima ancora che ambientale. In mezzo, un’opinione pubblica che mostra segnali contrastanti: scettica quando guarda ai costi nel breve periodo, più pragmatica quando valuta le opportunità di lungo termine e l’affidabilità di chi comunica impegni di sostenibilità.

L’evento Adnkronos Q&A “Sostenibilità al bivio” ha fotografato con nitidezza la fase: da un lato la pressione per alleggerire oneri e scadenze (anche attraverso il pacchetto Omnibus in discussione a Bruxelles, che punta a semplificare gli obblighi di rendicontazione per molte Pmi); dall’altro la richiesta di una politica industriale che metta risorse, filiere e autonomia strategica al centro, per non affidare la transizione all’ottimismo della volontà. “Il Green Deal non è piovuto dall’alto, è stato approvato dal legislatore”, ha ricordato Carlo Corazza, direttore dell’Ufficio del Parlamento europeo in Italia. E ancora: “Oggi non possiamo non mettere al centro del Green Deal la parola autonomia strategica, sarebbe velleitario continuare ad attuarlo dipendendo da autocrazie sempre più pericolose e non mettendo i soldi che servono”. Su un terreno così sensibile, il punto cieco non è ideologico ma operativo: come reggere la competizione con Stati Uniti e Cina mentre in casa si discute se l’agenda 2019 sia ancora “quella giusta” dopo pandemia, guerra, shock energetico e nuovi dazi. È qui che la sostenibilità, ambientale e sociale, deve fare i conti con la produttività dei sistemi, dal costo dell’energia alle infrastrutture, dal riciclo all’automotive: senza questi snodi, la parola “bivio” resta uno slogan.

Il quadro politico cambia passo, l’industria chiede certezza e risorse

La faglia politica corre lungo la parola “competitività”. Il ministro Adolfo Urso ha parlato più volte di “ideologia del Green Deal”, di “superamento” di parti dell’impianto e di un piano nazionale di risorse triennali da liberare rispetto ai vincoli europei. La pressione per ritarare regole e scadenze non è solo italiana: in più capitali si chiede di semplificare la cassetta degli attrezzi normativa e di riallineare gli obblighi di rendicontazione, specie per le imprese sotto i 1.000 dipendenti. Sul versante comunitario, però, il richiamo non è a frenare ma a calibrare: “Il Green Deal è nato nel 2019, un’era geologica fa”, ha detto Corazza, ricordando Covid, invasione russa dell’Ucraina, crisi energetica, inflazione, tensioni commerciali e l’ascesa cinese nelle tecnologie chiave. La domanda, oggi, è se il Green Deal del 2019 sia “ancora quello che serve” e con quali correttivi. C’è un punto su cui “sono tutti d’accordo”: non si fa una transizione “che è una vera politica industriale” senza metterci i soldi, perché “senza un’industria forte e innovativa il Green Deal non si attua”. Qui si apre il capitolo autonomia strategica: batterie, pompe di calore, fotovoltaico, materiali critici, stoccaggi (anche tramite idroelettrico) e, per alcuni, spazi per il nucleare e il carbon storage; settori nei quali l’Europa è in ritardo o rischia di cedere quote al “made in China 2025” e all’Inflation Reduction Act americano.

La contesa in Parlamento europeo riflette questa tensione: i principali gruppi si confrontano sul pacchetto Omnibus per semplificare la disciplina ambientale, con il rischio – denunciano alcuni – di indebolire la trasparenza lungo le catene del valore proprio mentre banche e vigilanza chiedono più dati per la stabilità finanziaria. L’equilibrio è stretto: alleggerire gli oneri per le Pmi senza smontare la credibilità dei mercati, dare certezza sulle traiettorie e accompagnare settori e territori con fondi mirati invece di scaricare sui costi privati una trasformazione che resta, prima di tutto, un progetto industriale. La “bussola” non è ideologica: o l’Europa costruisce leve comuni – investimenti, debito condiviso, incentivi per filiere strategiche – oppure si espone a una transizione decisa altrove, con effetti di dipendenza che già conosciamo su energia e tecnologie.

L’opinione pubblica davanti al Green Deal

Il sondaggio “Sostenibilità al bivio”, realizzato da Adnkronos su tutti i canali tra il 18 agosto e il 29 settembre, aggiunge una bussola “dal basso”.

  • Alla domanda “che cosa fare del Green Deal”, il 69% risponde “va eliminato”, mentre circa il 30% si divide tra chi lo considera una priorità (10%) e chi chiede di migliorarlo (21%). Un anno fa la quota “eliminare” era al 65%: segno di una crescente insofferenza che riflette il clima politico e la percezione di costi non accompagnati da benefici visibili.
  • La seconda domanda fotografa l’ambivalenza sul rapporto tra transizione e crescita: per il 68% la transizione danneggia l’economia, per il 24% sfida la crisi climatica, per l’8% aiuta la competitività. È un dato meno duro del passato (il “danneggia” era al 75% nella precedente rilevazione), ma resta il segnale che il “conto” percepito oggi pesa più del dividendo atteso domani.
  • Sul fronte mobilità, la disponibilità verso l’elettrico migliora ma restano due ostacoli materiali: prezzo (37% dei “no”) e ricarica (38% dei “no”). I “sì” crescono al 25% (dal 17% dell’anno scorso) tra chi ritiene che “conviene” (5%) o “sì, ma a prezzi diversi” (20%): una dinamica che parla di infrastrutture e politiche industriali, non di slogan.
  • Sul terreno della comunicazione aziendale la sfiducia è netta: solo il 7% promuove “soprattutto le grandi” per come comunicano la sostenibilità; il 34% chiede “più attenzione” e per il 59% il problema è “troppo greenwashing”.
  • Non stupisce allora che il 64% dica che l’etichetta “green” è irrilevante in acquisto, contro un 36% che ne tiene conto.
  • A difendere un’azienda “che parla di sostenibilità” ci si dice disponibili solo “se agisce con coerenza” (30%), “se ha una retribuzione” (5%, risposta che traduce verosimilmente la sensibilità sul tema equità interna) o “se mostra dati verificabili”.

Il messaggio è lineare: senza fatti misurabili, l’insegna “sostenibile” non sposta i comportamenti. E questo vale anche per la politica: la transizione guadagna consenso quando si traduce in prezzi in calo, infrastrutture che funzionano, occupazione di qualità e percorsi chiari per chi oggi teme di perdere più di quanto pensa di poter guadagnare.

Giovannini Rutelli Corazza Convegno Adn

Green Deal: autonomia strategica, investimenti e regole. Le voci di Corazza, Giovannini, Benifei

Se il fronte politico si interroga su quanto frenare o accelerare, quello istituzionale convergerebbe su tre verbi: investire, semplificare senza svuotare, riorientare le filiere. Corazza lega la riuscita della transizione a risorse comuni e resilienza industriale: “Readiness 2030 non è solo più armi, più cybersicurezza o più spazio, è anche più industria, una base industriale più solida, così come il Green Deal, senza un’industria forte e innovativa, non si attua perché è l’industria che fa l’innovazione, è l’industria che trova le risposte”. Non è un invito a rinnegare l’impianto, ma a smetterla con l’idea che “bastino le norme” senza un bilancio all’altezza: “Tu non puoi fare una transizione di quel tipo senza metterci i soldi. L’Europa ha messo molto poco e non mi sembra che da questo punto di vista la Commissione europea stia cambiando rotta”.

Enrico Giovannini, direttore scientifico di ASviS, rovescia una lettura diffusa: “Il Green Deal non è una strategia ambientalista. È una strategia economica, di crescita economica. E non aveva nulla di ideologico green”. E aggiunge una provocazione sui target: “Gli obiettivi al 2030 di Fit for 55 li raggiungeremo, se non facciamo sciocchezze clamorose. Perché il mondo produttivo ha deciso di investire in quella direzione, perché conviene dal punto di vista economico”.

In controluce c’è l’idea che il vantaggio competitivo si giochi sulla qualità dell’offerta, non sul “meno regole” in astratto. Brando Benifei, eurodeputato S&D, lega la tenuta del modello alla disponibilità di strumenti e fondi: “L’Europa non può darsi obiettivi senza dare gli strumenti di politica industriale. Mettere politiche e risorse adeguate è necessario”, avvertendo che la “semplificazione” è virtù solo finché non diventa “esentare il 90% degli operatori” dagli obblighi che fanno dell’Europa un benchmark. Il filo rosso è la credibilità: banche centrali e supervisori chiedono disclosure perché il rischio climatico è rischio finanziario; le imprese che investono in efficienza e innovazione performano meglio; i cittadini accettano la transizione quando vedono ritorni tangibili. Senza un “pacchetto” coerente – regole stabili, soldi veri, filiere europee – l’alternativa non è tra “green sì/green no”, ma tra transizione governata e declino competitivo.

Auto elettrica, filiere e dati: tre stress test che dicono quanto l’Europa voglia davvero guidare la transizione

L’automotive è il laboratorio di tutte le contraddizioni: prezzi in calo ma ancora alti, colonnine insufficienti, concorrenza cinese aggressiva sulle fasce medio-basse, filiera europea in rincorsa sulle batterie. Qui non bastano rinvii o battaglie di principio: servono infrastrutture capillari, sostegni mirati agli acquisti per le fasce meno abbienti, politiche di reshoring (il rientro delle produzioni industriali in Europa o nei singoli Paesi membri, ndr) su segmenti critici della catena del valore. Lo ha detto Giovannini, ricordando che le imprese europee erano pronte a investire “dal giorno che si decideva” e che l’errore di strategia non è nei target ma nel non aver costruito per tempo la rete di ricarica e nel non aver letto il posizionamento competitivo con lucidità: “Perché avete pensato che il vostro competitor fosse Tesla e non le auto cinesi a basso prezzo che si sapeva sarebbero arrivate?”.

Sullo sfondo, l’orizzonte 2035 non è domani: dieci anni per la messa a regime, usato che continuerà a circolare, margini per la neutralità tecnologica nella decarbonizzazione dei parchi. Ma continuare a oscillare tra acceleratore e freno costa più che scegliere una traiettoria e finanziare la transizione. Secondo stress test: la rendicontazione di sostenibilità. Semplificare gli oneri per le Pmi è ragionevole, ma se il pendolo finisce per svuotare la trasparenza, saranno comunque i mercati – banche in testa – a pretendere gli stessi dati per la valutazione del rischio. Terzo test: l’innovazione abilitante. “L’intelligenza artificiale può darci nuove strade”, osserva Benifei, anche sul fronte dell’efficienza energetica e dell’ottimizzazione dei processi. La sostenibilità non è un capitolo a latere, è un driver tecnologico: senza digitalizzazione della rete elettrica, sensoristica nei processi industriali, gemelli digitali per logistica e materiali, l’efficienza promessa resta teorica. La sfida è unire i puntini: incentivi all’adozione di tecnologie “green enabling”, corsie rapide autorizzative per impianti strategici, appalti pubblici che premiano innovazione e riduzione delle emissioni lungo il ciclo di vita. È questo mix – infrastrutture, politica industriale, capitale umano – a trasformare la transizione da costo a piattaforma di crescita. Il resto è rumore.

Dal riciclo all’economia circolare: dove si vince davvero (e subito) su costi, occupazione e autonomia

Se l’auto elettrica catalizza il dibattito, l’economia circolareoffre uno spazio di consenso spesso sottoutilizzato. Riciclo, riuso dei materiali critici, simbiosi industriale, recupero energetico dagli scarti: sono leve che riducono dipendenze esterne, migliorano la bilancia commerciale delle materie prime e creano lavoro locale qualificato. E soprattutto generano ritorni rapidi, misurabili, comunicabili: quello che l’opinione pubblica chiede quando giudica “greenwashing” gli annunci senza numeri. Qui l’Italia parte con un vantaggio storico, ma rischia di perderlo se non investe in impianti e innovazione di processo. Il punto non è più “se” fare circolarità, ma “quanto” e “dove” scalare: plastiche e packaging, metalli strategici, rifiuti tessili, frazione organica avanzata per biometano e biochimica. La nuova stagione dei piani industriali europei può fare la differenza solo se il perimetro degli aiuti è chiaro e stabile e se il permitting per gli impianti strategici – dai digestori anaerobici ai poli di selezione ad alta tecnologia – diventa una corsia rapida con soglie di tutela ambientale nette ma non punitive. Anche qui, la parola chiave è “verificabile”: target annuali di riduzione degli scarti in discarica, metriche di intensità di materiali per settore, premi fiscali su investimenti che dimostrano, non solo promettono, efficienza di risorse. Le imprese che lo fanno non chiedono meno regole: chiedono regole migliori, certezza temporale, sportelli amministrativi che lavorino allo stesso ritmo degli investimenti. È la via più breve per riconciliare ciò che il sondaggio fotografa come conflitto: fiducia contro greenwashing, benefici reali contro costi percepiti. E per trasformare il “bivio” in un tracciato, con cartelli leggibili per chi guida aziende, territori e filiere.

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