L’Italia produce più energia rinnovabile che mai, ma continua a importarne una quota record dall’estero. Le utility investono, digitalizzano, innovano, ma cercano ancora stabilità in un mercato che cambia troppo in fretta. È la sfida di un sistema che corre ma non si emancipa.
Il report “Power, Utilities & Renewables in Italia 2025” di Deloitte racconta un settore in movimento: otto grandi operatori – Enel, Eni Plenitude, Edison, Iren, Hera, E.On, ERG e Dolomiti Energia – spiegano come decarbonizzazione, decentralizzazione, democratizzazione e digitalizzazione stiano riscrivendo le regole del gioco.
La transizione è in atto, ma non è lineare. L’Italia corre verso l’energia pulita, con un piede ancora sul freno della dipendenza estera.
Il sistema elettrico italiano tra decarbonizzazione e importazioni record
La transizione energetica italiana procede, ma con il freno a mano tirato. Il Paese produce sempre più energia pulita, ma continua a comprarne troppa oltreconfine. Nel 2024 le rinnovabili hanno coperto il 49% della produzione elettrica nazionale, un salto di oltre 14 punti percentuali in un solo anno. Eppure, nello stesso periodo, le importazioni sono salite fino al 16,3% del fabbisogno: 51 terawattora su 312 totali. Un dato che fotografa una transizione a due velocità — virtuosa sul piano ambientale, fragile su quello strategico.
Tra il 2020 e il 2024, l’Italia ha aumentato le importazioni di elettricità a un ritmo medio del +4,7% annuo, invertendo la tendenza al calo del quinquennio precedente. Un paradosso: mentre il Paese installa pannelli e pale eoliche a ritmo crescente, la bilancia energetica peggiora. “L’Italia ha fatto progressi concreti nella decarbonizzazione», osserva Claudio Golino, Energy, Resources & Industrials Industry Leader di Deloitte, «ma l’aumento della dipendenza dall’estero evidenzia la necessità di accelerare sulle infrastrutture di rete e sui sistemi di accumulo”.
Quasi metà dell’elettricità importata arriva dalla Svizzera (43,1%) e un altro 41,6% dalla Francia, dove l’energia nucleare consente prezzi stabili e disponibilità costante. Seguono Montenegro (5,7%), Austria (4,8%), Grecia (3,7%) e Slovenia (3,1%). In altre parole, l’Italia dipende dall’idroelettrico svizzero e dal nucleare francese: due modelli che non controlla. La rete elvetica agisce da snodo e magazzino dell’energia europea, mentre la Francia esporta grazie a un parco atomico che, paradossalmente, alimenta un Paese che del nucleare non vuole sentir parlare.
Dietro l’apparente equilibrio del mix elettrico si nasconde un nodo politico irrisolto: l’autonomia energetica. Finché una parte consistente della domanda sarà coperta da energia importata, la transizione resterà condizionata da scelte e prezzi decisi altrove. È il limite di una transizione “dipendente”, che corre veloce sulla carta ma resta vulnerabile nella realtà. Perché un sistema che punta sulla decarbonizzazione senza garantirsi basi stabili rischia di restare sospeso: più verde, ma non più sicuro.
Come cambiano le strategie delle utility
Il sistema elettrico italiano è in bilico tra crescita e incertezza. Le rinnovabili avanzano, ma la volatilità dei prezzi, i colli di bottiglia autorizzativi e il costo del capitale rischiano di frenare gli investimenti. La parola chiave per le utility è una: stabilità. Non quella statica, ma quella che serve per rendere prevedibili i ritorni economici e garantire la sicurezza del sistema.
Gli strumenti ci sono, ma vanno usati bene. I nuovi incentivi FER X, i contratti a lungo termine (Power Purchase Agreement) e l’Energy Release 2.0 sono pensati per dare respiro a un settore che vive di orizzonti lunghi. In parallelo, il Capacity Market resta essenziale per tenere in equilibrio la rete, assicurando riserve in grado di rispondere ai picchi di domanda e compensare l’intermittenza delle rinnovabili. È un equilibrio tecnico, ma anche politico: senza una cornice regolatoria stabile, la decarbonizzazione rischia di trasformarsi in un esercizio contabile.
Secondo Deloitte, la produzione elettrica nazionale nel 2024 ha toccato 261 TWh, in crescita del 2,5% rispetto all’anno precedente. Un segnale positivo, ma ancora insufficiente per ridurre la dipendenza esterna. Il nodo è la velocità: i tempi medi di realizzazione di un impianto eolico o fotovoltaico in Italia restano tra i più lunghi d’Europa. Ogni anno di ritardo pesa sui bilanci e scoraggia gli investitori. Per questo, come spiega Enrico Ferraresi, Power, Utilities & Renewables Sector Leader di Deloitte, “le utility italiane sono oggi chiamate a un cambio di passo. Occorre sviluppare modelli di investimento sostenibili e selettivi, facendo leva su strumenti come PPA e incentivi pubblici. Solo così sarà possibile coniugare competitività, stabilità dei ritorni e sicurezza energetica”.
Ma le sfide non sono solo finanziarie. Nei prossimi dieci anni, la domanda elettrica nazionale potrebbe toccare i 400 TWh, trainata dall’elettrificazione dei consumi e dal ritorno dell’industria energivora. Questo significa che la capacità installata dovrà crescere in modo più rapido e coerente. Serviranno nuovi impianti, sistemi di accumulo diffusi e una gestione intelligente della domanda.
Le utility, intanto, si muovono. Enel, Eni Plenitude, Edison, Iren, Hera, E.On, ERG e Dolomiti Energia — i principali player intervistati nel report — stanno ricalibrando i portafogli: meno centrali termiche, più rinnovabili, più accordi di lungo periodo e un’attenzione crescente alla flessibilità. Il punto non è solo produrre energia pulita, ma riuscire a farlo con continuità, senza dipendere dai mercati esterni.
In un settore dove la fiducia degli investitori vale quanto i megawatt installati, la stabilità è la nuova frontiera della transizione.
Le reti
La transizione energetica non si fa solo con pale e pannelli, ma con cavi, centraline e dati. Senza una rete in grado di assorbire e distribuire l’energia prodotta dalle rinnovabili, la decarbonizzazione resta un obiettivo teorico. È il punto più tecnico e, insieme, più fragile del sistema italiano: la rete di trasmissione e distribuzione deve essere ripensata quasi da zero per reggere il nuovo paradigma elettrico.
La Commissione europea stima che, da qui al 2040, serviranno oltre 1.200 miliardi di euro di investimenti nelle infrastrutture elettriche europee, il 40% destinato alla trasmissione e il 60% alla distribuzione. Solo in Italia, secondo Deloitte, la rete di trasmissione dovrà mobilitare circa 30 miliardi di euro entro quella data. È un salto di scala enorme, che richiede pianificazione, capacità industriale e una regia pubblica stabile.
Nel 2024 i principali operatori della distribuzione hanno superato i 4,8 miliardi di euro di investimenti, e per il 2025 e il 2026 hanno già in programma spese superiori ai 4 miliardi l’anno. Questi numeri sono barometri di una trasformazione tecnologica: reti più resilienti ai cambiamenti climatici, più digitali e più interattive.
Gli eventi meteorologici estremi, sempre più frequenti, stanno mettendo alla prova le infrastrutture, con blackout e interruzioni che costano milioni di euro. Rendere le reti a prova di eventi estremi non è più un tema di adattamento, ma di sopravvivenza economica.
Parallelamente, la digitalizzazione entra in ogni segmento del sistema. Reti elettriche intelligenti, automazione, analisi predittiva, intelligenza artificiale: tutto serve per gestire una rete dove migliaia di piccoli produttori locali immettono energia in modo intermittente. Le utility stanno passando da gestori di flussi centralizzati a orchestratori di ecosistemi distribuiti. L’energia diventa un’informazione da elaborare in tempo reale.
Ma la partita non si gioca solo nei consigli di amministrazione. Servono norme chiare, processi autorizzativi rapidi e, soprattutto, una governance che metta in fila i fondi del Pnrr, i piani nazionali e i capitali privati.
Il mercato cambia pelle
La transizione energetica non è solo una questione di infrastrutture o di megawatt. È anche, e soprattutto, una partita che si gioca sul mercato e sulle competenze. Le utility non vendono più solo elettricità: gestiscono ecosistemi complessi in cui il cliente diventa un attore attivo e la tecnologia il collante che tiene insieme produzione, consumo e sostenibilità.
Il mercato dell’energia è diventato più competitivo e meno prevedibile. I tassi di abbandono (churn) aumentano, i costi di acquisizione crescono e la fedeltà dei clienti si misura in clic. Per restare profittevoli, le utility puntano sulla qualità del portafoglio: meno volumi, più valore. L’obiettivo è consolidare relazioni di lungo periodo, spostando il baricentro dal prezzo all’esperienza. Le offerte non sono più solo tariffarie, ma integrate: fotovoltaico domestico, colonnine di ricarica, pompe di calore, comunità energetiche, servizi digitali. È la nuova frontiera dell’energia come servizio.
Il digitale è la leva principale di questa trasformazione, ma non basta “mettere online” l’energia. Serve saperla interpretare. L’Intelligenza Artificiale sta entrando nella gestione dei consumi, nella manutenzione predittiva e persino nella personalizzazione delle offerte. Gli algoritmi ottimizzano i flussi di rete, ma anche le interazioni con i clienti. Il rischio, tuttavia, è che l’Ai aumenti la complessità dei sistemi più velocemente della capacità umana di governarli. Ogni kilowatt risparmiato grazie all’efficienza digitale comporta anche un aumento del fabbisogno energetico dei data center che lo rendono possibile.
Dietro la tecnologia resta un problema strutturale: i talenti. Secondo Deloitte, senza nuove competenze e leadership diffuse l’innovazione non decollerà. Il settore ha bisogno di ingegneri, tecnici, analisti di dati, ma anche di figure in grado di interpretare i nuovi modelli di business energetico. L’Italia, tuttavia, sconta una carenza cronica di profili Stem e una formazione ancora troppo rigida. Le utility si trovano così a competere non solo sui mercati, ma anche sul mercato del lavoro.