La Cop30 di Belém si è chiusa con un documento che sostiene l’impianto dell’Accordo di Parigi ma non scioglie i nodi per cui le delegazioni erano arrivate nel cuore dell’Amazzonia. La Mutirão Decision ribadisce la soglia dei 1,5 °C, avvia la fase pilota del Fondo Perdite e Danni, introduce una prima serie di indicatori globali per misurare l’adattamento e istituisce un Meccanismo per la Giusta Transizione operativo dal 2026.
In parallelo, però, scompaiono la roadmap sull’uscita dalle fossili — sostenuta da oltre ottanta Paesi — e il riferimento alla deforestazione, un’esclusione che in questo contesto pesa ulteriormente.
Il negoziato si è svolto lungo traiettorie diverse e difficili da ricomporre, con la presidenza brasiliana impegnata in un equilibrio continuo fra ambizioni, veti e procedure. Il risultato è un accordo che fa avanzare alcuni pilastri tecnici ma non affronta le questioni più divisive: l’energia e le foreste. È la conferma che l’attuale architettura multilaterale fatica a trovare sintesi quando le trattative toccano interessi economici non disposti a cedere.
Una Cop divisa in tre: chi ha spinto, chi ha frenato e chi ha scelto di non far saltare il tavolo
La geografia politica del vertice si è definita presto. Tre blocchi, con agende diverse e obiettivi incompatibili.
- Il primo blocco era composto dai principali Paesi produttori — Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Russia e alcuni loro alleati. Sono arrivati a Belém con una linea negoziale molto netta: evitare che il testo potesse suggerire, anche indirettamente, un impegno a ridurre gradualmente l’uso delle fossili. Nelle riunioni tecniche e nei contatti con la presidenza hanno ribadito la stessa posizione, puntando a mantenere la formula già approvata a Dubai, transitioning away, senza scadenze né passaggi intermedi che potessero trasformarla in un percorso operativo.
- Il secondo blocco riuniva il fronte più ambizioso, un gruppo molto vario che comprendeva Unione Europea, Stati insulari, Colombia, Cile, Samoa, Kenya, Fiji e diversi Paesi latinoamericani. In totale più di ottanta governi chiedevano l’introduzione di una roadmap comune per l’allontanamento dalle fossili. Alcuni — la Colombia in testa — spingevano per un testo preciso, con tappe intermedie, una scadenza chiara e il divieto di nuove infrastrutture fossili. Altri sarebbero stati disposti ad accettare una versione più leggera, purché definisse un orientamento condiviso. Era un fronte compatto nelle intenzioni, ma senza i numeri necessari per superare il muro dei veti incrociati.
- Il terzo gruppo era formato dai Paesi che volevano soprattutto evitare un fallimento della conferenza. Molti Stati africani, insieme a diverse economie asiatiche e a un’ampia parte del mondo in via di sviluppo, temevano che uno scontro frontale su energia e foreste potesse far saltare anche i progressi attesi sul fronte finanziario. Per questo hanno scelto una linea di prudenza: accettare un compromesso modesto ma gestibile, piuttosto che spingere il negoziato verso una rottura.
Il punto di caduta si è visto in plenaria: mentre la presidenza avviava l’approvazione del documento, le delegazioni di Colombia, Panama e Uruguay hanno sollevato i cartelli per contestare un esito che ritenevano troppo distante dalle ambizioni di partenza. Il gesto, subito registrato in sala, non ha però modificato la procedura. André Corrêa do Lago ha portato il testo al voto per consensus e il documento è stato adottato, preservando l’unità formale della conferenza ma senza incidere sul quadro energetico che molti Paesi avrebbero voluto affrontare con maggiore decisione.
Cosa contiene la Mutirão Decision e cosa resta fuori
Il testo finale -la Mutirão Decision- mette insieme misure operative e scelte di compromesso. Le aree più solide riguardano finanza, adattamento e cooperazione per la transizione.
Finanza
Sul fronte finanziario, la fase pilota del Fondo Perdite e Danni parte con una dotazione iniziale di circa 800 milioni di dollari. La cifra è lontana dai bisogni stimati, ma consente di avviare i primi interventi e risponde a una richiesta che molti Paesi africani e Stati insulari avanzano da anni. Per la prima volta, il fondo dispone di una struttura operativa capace di sostenere progetti legati a impatti già in corso, non solo futuri.
Un’altra iniziativa seguita con attenzione è il Tropical Forests Forever Facility, lanciato dal Brasile per creare uno strumento finanziario stabile a tutela delle grandi foreste tropicali. L’idea è mettere a disposizione risorse prevedibili e a lungo termine per i Paesi che le ospitano, superando la frammentazione degli attuali contributi volontari. Il Facility ha raccolto consenso politico, ma resta fuori dai meccanismi già operativi della Cop: la sua definizione proseguirà nei prossimi mesi, con l’obiettivo di presentare un modello più strutturato entro Cop31.
Adattamento
È stato approvato anche il pacchetto dei 60 indicatori globali per l’adattamento, frutto di due anni di lavoro tecnico. Il testo arrivato in plenaria, però, non era quello iniziale: alcune metriche su capacità istituzionali ed efficacia delle misure sono state semplificate nelle ultime ore di negoziato. Ne risulta un quadro applicabile, ma meno dettagliato di quanto molti esperti avessero proposto per misurare con precisione i progressi dei Piani nazionali di adattamento.
Giusta Transizione
Il Meccanismo di Giusta Transizione è uno dei capitoli più forti. Riconosce il ruolo di lavoratori, comunità locali e popolazioni indigene nella trasformazione dei sistemi economici. Non prevede fondi vincolati, ma introduce un quadro che molti governi potranno utilizzare per negoziare investimenti, sviluppare piani sociali e coordinarsi su settori sensibili come industria pesante, miniere e infrastrutture.
Cosa è stato escluso
I due vuoti principali:
- energia:
- nessuna roadmap
- nessuna data
- nessuna sequenza
- nessun riferimento all’eliminazione graduale delle fossili
- deforestazione:
- sparisce il riferimento al 2030
- nessun impegno comune
- nessuna strategia integrata tra regioni tropicali
Il Brasile aveva proposto di mantenere almeno un riferimento minimo alle foreste. L’opposizione dei Paesi arabi e di altri Stati produttori ha chiuso ogni margine.
I processi paralleli
Paradossalmente, i segnali più forti sono arrivati fuori dal testo ufficiale:
- la Belém Declaration, firmata da oltre quaranta Paesi, sull’allontanamento dalle fossili
- la decisione di Colombia e Paesi Bassi di organizzare nel 2026 il primo vertice globale dedicato solo all’uscita dalle fossili
- una roadmap volontaria sostenuta da oltre ottanta governi
Sono iniziative politiche, non vincolanti. Ma mostrano che una parte crescente della diplomazia climatica si sta spostando fuori dallo spazio formale delle Cop.
L’energia che non entra nel testo
Il capitolo energetico è quello che ha rallentato l’intero vertice. Non perché mancassero tempo o proposte, ma perché una parte dei governi non era disposta a trasformare un principio generale in un percorso comune. Arabia Saudita, Russia e altri Stati del Golfo sono arrivati con una posizione inamovibile: nessun nuovo riferimento che potesse essere letto come un impegno a ridurre l’uso delle fossili. La linea era netta: preservare la formula di Dubai e impedirne qualsiasi evoluzione.
La richiesta di includere una roadmap è stata così respinta in ogni sua variante. Ogni tentativo di compromesso — una sequenza graduale, una data indicativa, persino un riferimento a futuri tavoli tecnici — è stato archiviato nelle fasi preparatorie del testo. La motivazione è stata ripetuta per giorni: introdurre elementi più chiari avrebbe significato aprire la strada a obblighi futuri.
La Cina ha contribuito indirettamente alla paralisi. Pur guidando la produzione mondiale di tecnologie pulite, ha scelto una posizione defilata: assumere una leadership esplicita sulla transizione energetica avrebbe implicato responsabilità finanziarie che Pechino non vuole assumere ora. La sua cautela ha lasciato che il confronto tra blocchi procedesse senza un contrappeso.
L’Europa, priva di un fronte realmente compatto, non ha compensato l’assenza politica degli Stati Uniti. Le divergenze interne — tra chi premeva per un testo avanzato e chi temeva conseguenze industriali — hanno reso difficile sostenere una linea unica.
Il contesto amazzonico ha poi amplificato le tensioni. La presidenza brasiliana ha evitato forzature, concentrandosi sui capitoli dove aveva più margine. Sul nodo energia le posizioni erano troppo distanti. La plenaria ha reso evidente la frattura: quando Corrêa do Lago ha avviato l’approvazione, alcune delegazioni hanno sollevato i cartelli per contestare l’assenza degli impegni su fossili e foreste. Il testo è passato, ma il dissenso è rimasto visibile.
Dentro lo scenario post-Belém
L’esito di Belém arriva in un momento in cui l’Europa sta ridefinendo la propria traiettoria climatica, con un obiettivo al 2035 che già nei mesi scorsi aveva messo in luce divisioni profonde tra gli Stati membri. Alla Cop30 queste fratture sono riemerse con chiarezza. La Francia ha preso una posizione esplicita, sottolineando che il testo approvato non risponde all’ambizione che l’Unione si era data, soprattutto sul fronte dell’uscita dalle fossili. Altri governi hanno preferito mantenere un profilo più defilato, consapevoli che un confronto diretto avrebbe indebolito ulteriormente la coesione europea.
Dentro questo scenario, l’Italia ha scelto una linea prudente. Il contributo italiano si è concentrato sulla dimensione finanziaria e sulla cooperazione internazionale, in particolare attraverso le iniziative legate al Piano Mattei. Sulla parte energetica, Roma non si è unita al blocco dei Paesi favorevoli a un calendario più definito per l’abbandono delle fossili. Una scelta che riflette la complessità del mix energetico nazionale, ancora legato al gas come fonte di equilibrio e con una diffusione delle rinnovabili che procede ma non abbastanza da sostenere una posizione negoziale più assertiva.
Sul fronte industriale, l’assenza di una direzione globale più chiara pesa tanto quanto le incertezze interne alla Ue. I settori ad alta intensità energetica guardano ai nuovi obiettivi europei con cautela, mentre le filiere emergenti — dalla produzione di moduli fotovoltaici alle tecnologie per l’idrogeno — chiedono segnali più stabili. Il Carbon Border Adjustment Mechanism, finito al centro di discussioni laterali durante la Cop, è un ulteriore elemento di tensione: da un lato è considerato uno strumento essenziale per evitare concorrenza sleale; dall’altro rischia di irrigidire i rapporti con le economie emergenti che lo vedono come un ostacolo alle proprie esportazioni.
Guardando ai prossimi mesi, la Cop31 in Turchia si preannuncia come una tappa di consolidamento. Non ci saranno le aspettative che hanno accompagnato Belém, ma la discussione sulle regole del processo — soprattutto sulla necessità di un organismo permanente che monitori l’attuazione dell’Accordo di Parigi — potrebbe diventare uno dei punti principali. Con un 2030 che si avvicina rapidamente, molti governi europei stanno già valutando come arrivare al prossimo ciclo negoziale con strumenti più robusti e meno esposti ai veti che hanno condizionato la Cop30.