A meno di ventiquattr’ore dall’annuncio con cui la Banca Mondiale ha revocato il suo divieto sul finanziamento di progetti nucleari nei Paesi in via di sviluppo, il Medio Oriente torna sull’orlo di un’escalation atomica: Israele ha colpito obiettivi in Iran, rilanciando il confronto su uno dei nodi più spinosi dell’energia nucleare – la linea sottile tra uso civile e militare.
Due notizie scollegate, ma che si specchiano in una stessa faglia geopolitica. Da una parte, l’energia atomica come strumento per garantire sicurezza energetica e decarbonizzazione nei Paesi più vulnerabili. Dall’altra, l’energia atomica come leva di potere, influenza e potenzialmente di minaccia. Che si tratti di un impianto sperimentale in Ghana o di centrifughe a Natanz, la posta in gioco resta sempre alta. E il ritorno della Banca Mondiale nel nucleare globale riapre un fronte che sembrava chiuso dal 2013.
La decisione della banca – spinta da Stati Uniti e, in misura crescente, anche dalla nuova leadership tedesca – mira a finanziare centrali nucleari “sicure, sostenibili e supervisionate” nei Paesi in via di sviluppo, in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione discussi alle Cop sul clima. Ma il tempismo dell’annuncio – che coincide quasi con un atto militare che rimette l’atomo al centro delle crisi globali – ne sottolinea la delicatezza strategica. Il dibattito non può più essere tecnico: è politico, industriale, ambientale. E si gioca su scala planetaria.
Perché la Banca Mondiale ha riaperto al nucleare dopo 12 anni
Dopo più di un decennio di esclusione volontaria, la Banca Mondiale ha deciso di tornare a finanziare progetti di energia nucleare. Una scelta presentata come “pragmatica” e “flessibile” dal presidente Ajay Banga, ma che segna una svolta radicale rispetto alla linea di prudenza – o chiusura – adottata a partire dal 2013. Allora, il divieto era stato sostenuto in primis da paesi come la Germania, secondo cui i rischi legati alla sicurezza e alla gestione degli impianti erano troppo elevati per realtà tecnologicamente fragili. Oggi, però, la narrazione si è capovolta: a spingere per l’inversione di rotta sono gli stessi paesi donatori, in testa gli Stati Uniti, preoccupati più dalla penetrazione russa e cinese nei mercati emergenti che dalle possibili controindicazioni ambientali del nucleare.
Il nuovo corso è stato comunicato ufficialmente mercoledì 12 giugno con una mail interna ai dipendenti della Banca. La decisione è maturata in un contesto segnato da una duplice pressione: da un lato, la crescente richiesta di energia nei Paesi in via di sviluppo, che secondo le stime raddoppierà entro il 2035; dall’altro, la necessità di fornire elettricità senza aumentare la dipendenza da combustibili fossili. La Banca, come spiegato nella nota interna, intende contribuire al rafforzamento di “sistemi energetici resilienti e a basse emissioni”, aprendo così la porta a finanziamenti destinati non solo alla costruzione di nuove centrali, ma anche all’estensione della vita utile di quelle esistenti e allo sviluppo di reattori di nuova generazione.
Dietro alla svolta si intravede chiaramente la spinta strategica americana. Il Tesoro Usa, già ad aprile, aveva chiesto esplicitamente di rimuovere il veto, sostenendo che il nucleare può rappresentare una leva di sviluppo economico e sostenibilità ambientale per i mercati emergenti. La mossa si inserisce in una competizione geopolitica sempre più marcata: mentre Mosca e Pechino esportano impianti chiavi in mano in Africa e Asia, Washington cerca di promuovere le proprie tecnologie – in particolare i piccoli reattori modulari, più flessibili, economici e facili da implementare rispetto alle centrali tradizionali. Un’opzione ancora sperimentale, ma su cui gli Usa puntano per rientrare nella corsa globale all’atomo civile.
La nuova linea della Banca prevede una stretta collaborazione con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, soprattutto per quanto riguarda le garanzie di sicurezza, i controlli sulla proliferazione e la regolamentazione dei singoli progetti. Ma non mancano le ombre. Il ritorno del nucleare nei dossier di sviluppo solleva interrogativi su criteri di selezione, modalità di supervisione, e soprattutto sulla coerenza con gli obiettivi climatici globali. E apre un’altra questione cruciale: quella della sovranità energetica dei Paesi beneficiari. In un mondo dove l’energia è anche potere, chi controlla l’atomo – anche quello civile – esercita influenza. E la Banca Mondiale, con la sua riapertura, lo sa perfettamente.
Il ritorno dell’atomo nei Paesi emergenti
Il rilancio del nucleare nei Paesi in via di sviluppo non è solo una questione di finanziamenti. È una partita geopolitica a pieno titolo, che intreccia sicurezza, autonomia tecnologica e controllo delle risorse. Per anni, molte economie emergenti hanno spinto per avere accesso a tecnologie atomiche per uso civile, chiedendo alla Banca Mondiale – e ad altri istituti multilaterali – di abbandonare una linea che, nei fatti, li lasciava senza alternative: o dipendere dalle importazioni di gas e carbone, o rivolgersi a Cina e Russia per ottenere impianti nucleari “chiavi in mano”, con tutto ciò che comporta in termini di vincoli diplomatici, tecnologici e finanziari.
Il caso del Ghana è emblematico. Accreditatosi da tempo come uno dei Paesi africani più avanzati dal punto di vista normativo e istituzionale, ha chiesto formalmente alla Banca di riconsiderare il bando. “Ci siamo preparati a lungo, identificando i siti e costruendo un impianto normativo per partire con la tecnologia nucleare – ma le resistenze internazionali ci hanno rallentato”, ha dichiarato Ishmael Ackah, consulente tecnico del ministero dell’Energia di Accra. La preoccupazione condivisa da diversi governi africani è chiara: restare fuori dalla filiera nucleare oggi significa dipendere domani da attori esterni per coprire una domanda energetica in crescita costante, alimentata dallo sviluppo urbano, industriale e demografico.
Non si tratta però solo di una questione africana. In Asia, paesi come Bangladesh, Vietnam e Indonesia stanno esplorando o hanno già avviato collaborazioni con Mosca o Pechino per impianti nucleari, con contratti che coprono decenni. L’Iran stesso – pur con ambizioni ben oltre il civile – ha sviluppato il proprio programma grazie alla cooperazione con la Russia. È proprio questo lo scenario che gli Stati Uniti e i loro alleati cercano di riequilibrare, sostenendo (anche attraverso la Banca Mondiale) la costruzione di impianti nucleari “occidentali” nei Paesi in via di sviluppo. Ma il rischio, secondo molti osservatori, è che si passi da una dipendenza all’altra, trasformando l’energia in un nuovo terreno di influenza economica e strategica.
Il vero nodo, oggi, è la governance dell’atomo nei contesti fragili. Costruire un reattore non basta: serve un’infrastruttura regolatoria credibile, una forza lavoro qualificata, sistemi di controllo indipendenti e soprattutto una rete elettrica moderna e stabile. E qui l’intervento multilaterale può fare la differenza, a patto che non sia mosso da interessi commerciali o logiche di blocco. È per questo che la Banca Mondiale ha insistito sulla supervisione congiunta con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e sull’integrazione del nucleare in mix energetici nazionali ben bilanciati, che comprendano anche solare, eolico e idroelettrico. Ma garantire neutralità e trasparenza, in un mondo dove l’energia è moneta geopolitica, sarà la vera sfida nei prossimi anni.