36 aziende producono la metà delle emissioni globali di CO₂

I dati del Carbon Majors sono eloquenti: nel 2023 questi colossi hanno prodotto oltre 20 miliardi di tonnellate di anidride carbonica
7 Marzo 2025
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Inquinamento Petrolio

Appena 36 multinazionali sono responsabili della metà delle emissioni globali di CO₂. Lo rivela l’ultima edizione del Carbon Majors Report, un’analisi approfondita pubblicata da InfluenceMap che fotografa l’impatto delle più grandi aziende produttrici di combustibili fossili sul nostro pianeta.

Il rapporto, che ha preso in esame i dati del 2023 relativi a 169 grandi aziende attive nei settori del petrolio, gas, carbone e cemento, mette in luce una realtà preoccupante: mentre governi e cittadini di tutto il mondo sono chiamati a ridurre la propria impronta di carbonio attraverso scelte quotidiane spesso difficili, un gruppo ristretto di colossi industriali continua a immettere nell’atmosfera quantità colossali di gas serra.

I numeri dell’inquinamento

I dati del Carbon Majors 2023 sono eloquenti: nel solo 2023, 36 giganti dei combustibili fossili hanno prodotto oltre 20 miliardi di tonnellate di CO₂. Per contestualizzare questa cifra, basti pensare che le emissioni totali globali di CO₂ nello stesso anno sono state di circa 40 miliardi di tonnellate.

La distribuzione delle emissioni per fonte energetica mostra una preponderanza del carbone, responsabile del 41% delle emissioni totali. Seguono il petrolio con il 32%, il gas naturale con il 23% e, infine, il cemento con il 4%. Questi dati sottolineano come, nonostante gli sforzi globali verso una transizione energetica, i combustibili fossili tradizionali continuino a dominare il panorama energetico mondiale. Le emissioni sono destinate ad aumentare a livello globale ora che la nuova amministrazione americana sta promuovendo il ritorno alle fonti fossili.

I giganti delle emissioni

Tra i principali responsabili delle emissioni, spiccano nomi noti dell’industria energetica globale. La medaglia nera va a Saudi Aramco, il gigante petrolifero saudita, che l’azienda più inquinante al mondo. Se fosse uno Stato indipendente, Saudi Aramco sarebbe il quarto più grande inquinatore al mondo, dopo Cina, Stati Uniti e India. Un dato che fa riflettere sulla concentrazione di potere climatico nelle mani di singole entità aziendali.

Anche ExxonMobil lascia un’impronta carbonica mastodontica: le sue emissioni sono paragonabili a quelle dell’intera Germania, nona nella classifica mondiale dei Paesi inquinatori. Altri nomi di primo piano includono Coal India, Shell, China Energy, National Iranian Oil Company, Gazprom, Adnoc degli Emirati Arabi Uniti, Petrobras brasiliana e l’italiana Eni.

“Nonostante gli impegni climatici globali, un piccolo gruppo di colossi dei combustibili fossili sta aumentando significativamente la produzione e le emissioni”, spiega Emmett Connaire, analista di InfluenceMap, il think tank che ogni anno aggiorna il rapporto Carbon Majors. “La ricerca evidenzia l’impatto sproporzionato che queste aziende hanno sulla crisi climatica e sostiene gli sforzi per far rispettare la responsabilità aziendale”.

Il ruolo degli Stati e l’inversione degli Usa

Un altro dato interessante evidenziato dal report è che ben 25 delle 36 compagnie responsabili della metà delle emissioni globali sono a controllo statale. Paesi che firmano accordi per la riduzione delle emissioni sono spesso gli stessi che controllano alcune delle aziende più inquinanti del pianeta. Questa contraddizione mette in discussione la reale volontà politica di affrontare la crisi climatica e suggerisce la necessità di un maggiore allineamento tra politiche pubbliche e governance delle aziende statali.

Nel caso degli Usa, l’eventuale contraddittorietà potrebbe non essere il problema principale. Da quando è tornato alla Casa Bianca, Donald Trump ha confermato la linea dura contro i trattati internazionali sul clima e ritirato gli States degli Accordi di Parigi entro il 2026. Il tycoon aveva preso questa decisione già nell’estate 2017, durante il suo primo mandato, prima che Biden ripristinasse gli Accordi di Parigi.

Oggi la storia cambia di nuovo, ma questa volta potrebbe essere diversa. Un po’ perché Trump non può ricandidarsi alla presidenza (e quindi ha le mani più libere), un po’ perché i contrasti economici e geopolitici sono più polarizzati rispetto a otto anni fa.

The Donald ha firmato altri ordini esecutivi per allentare le regole sulle trivellazioni e sull’estrazione mineraria, ed eliminare alcuni incentivi economici alla produzione di energia rinnovabile (incluso il settore delle auto elettriche). Quasi per legittimare il cambio di rotta di Washington, Trump ha anchedichiarato un’emergenza energetica nazionale, la prima nella storia degli Stati Uniti.

Per approfondire: Trump esce (di nuovo) dagli accordi di Parigi, che ne sarà del clima?
In campo finanziario: Trump 2.0, le big americane si ritirano dagli impegni green, il rischio ‘effetto-domino’ è concreto

Una responsabilità storica

Il dataset sviluppato da Carbon Majors non si limita all’analisi delle emissioni attuali, ma ricostruisce il contributo storico delle aziende all’inquinamento globale, risalendo fino al 1854. Questa prospettiva temporale estesa rivela un dato ancora più sorprendente: solo 180 aziende (11 delle quali oggi non esistono più) sono responsabili di due terzi dell’inquinamento da fonti fossili negli ultimi 170 anni.

Numeri che ricordano come la crisi climatica attuale sia il risultato di decisioni industriali e politiche prese nell’arco di generazioni, e come la responsabilità per l’accumulo di gas serra nell’atmosfera sia concentrata in un numero relativamente piccolo di attori economici.

Implicazioni per la governance climatica

I risultati del Carbon Majors Report 2023 hanno profonde implicazioni per la governance climatica globale. Da un lato, identificando chiaramente i maggiori responsabili delle emissioni, il rapporto fornisce una base concreta per indirizzare gli sforzi di regolamentazione e pressione verso attori specifici. Dall’altro, mette in luce la necessità di un ripensamento degli approcci tradizionali alla mitigazione climatica, che spesso si concentrano più sui comportamenti individuali che sulle responsabilità delle grandi aziende.

Allo stesso tempo, questi dati non devono deresponsabilizzare i cittadini e le altre aziende anche perché, se la produzione di questi colossi fosse spalmata e suddivisa in tante ‘piccole’ imprese non è detto che le emissioni sarebbero inferiori.

Meno responsabili, più vittime

Alla insostenibilità ambientale si aggiunge quella sociale. Il rapporto solleva anche questioni fondamentali di giustizia climatica. Mentre gli effetti del cambiamento climatico colpiscono in modo sproporzionato le comunità più vulnerabili e meno responsabili delle emissioni storiche, i profitti generati dalle attività inquinanti rimangono concentrati nelle mani di pochi (ampliando, inoltre, il gap economico tra ricchi e poveri).

Una transizione energetica equa dovrebbe quindi non solo mirare a ridurre le emissioni globali, ma anche a redistribuire in modo più giusto costi e benefici di questa trasformazione.

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