Il 2026 sarà davvero l’anno dell’aurora boreale?

Tra boom mediatico, false certezze e metodo sul campo: l’analisi di Lorenzo Mirandola, ingegnere ambientale e aurora hunter in Lapponia
28 Dicembre 2025
14 minuti di lettura
Aurora boreale foto Lorenzo Mirando
Aurora boreale (foto di Lorenzo Mirandola)

Il 2026 viene indicato come l’anno delle aurore boreali, l’anno in cui il cielo del Nord dovrebbe accendersi più spesso, più forte, più a lungo. Un’etichetta che funziona perché semplifica: trasforma un fenomeno irregolare, governato da dinamiche solari e atmosferiche complesse, in una finestra temporale rassicurante. Un’idea che invita a programmare, prenotare, aspettare. Ma l’aurora non nasce per stare dentro un calendario, e ogni tentativo di ridurla a una scadenza rischia di produrre l’effetto opposto: moltiplicare le attese e preparare il terreno alla delusione.

Negli ultimi anni l’aurora boreale è entrata in una fase nuova della sua esposizione pubblica. È diventata un oggetto di aspettativa collettiva, compressa in grafici, indici, orari suggeriti con sicurezza e pacchetti che promettono l’esperienza come se fosse ripetibile. In questo processo, ciò che si perde non è solo la complessità del fenomeno, ma anche la capacità di leggerlo. Quando il cielo non risponde, il racconto si ribalta: il posto “non era quello giusto”, l’anno “non era davvero buono”, le immagini “ingannano”. Il problema, però, non è l’aurora. È l’idea che la precede.

È qui che entra in gioco Lorenzo Mirandola, ingegnere ambientale, italiano, residente in Lapponia, tra i cacciatori di aurora boreale più seguiti al mondo. La sua esperienza nasce dall’incontro diretto. “Il passaggio decisivo per me è stato la prima volta che ho visto l’aurora boreale nel 2016; me ne sono follemente innamorato mentre ero in Erasmus qui e da lì è nata la mia passione che mi ha spinto a trasferirmi definitivamente in Lapponia”. Da quel momento, il cielo artico smette di essere un’immagine distante e diventa un territorio da attraversare, notte dopo notte, con metodo e responsabilità.

Ed è proprio questa prospettiva, costruita sul campo, che rende più utile il suo sguardo sul 2026. “È vero che il 2026 sarà un anno molto probabilmente interessante in termini di aurore perché siamo in fase di discesa dal massimo solare e solitamente tutte le tempeste magnetiche più forti sono in questa fase del ciclo solare. Ma non possiamo sapere quale sarà l’anno migliore se non quando facciamo un resoconto dell’anno stesso”. Non è una frenata, è un cambio di traiettoria. Significa spostare l’attenzione dall’idea dell’anno perfetto alle condizioni reali, dai proclami alle decisioni prese sul momento, dalle promesse alla comprensione. È da qui che inizia il racconto più utile per chi vuole davvero avvicinarsi all’aurora: capire come nasce, cosa la rende visibile, perché non si lascia programmare e quali errori continuano a falsarne la percezione.

Cosa accade davvero sopra il cielo artico

Prima di parlare di periodi, viaggi e probabilità, serve tornare all’origine del fenomeno. Per Mirandola, il primo errore che continua a circolare è l’idea che l’aurora sia un evento che “compare”. Un’apparizione. Una sorta di premio per chi ha scelto la latitudine giusta. È un equivoco che nasce da anni di racconto semplificato e che finisce per oscurare ciò che rende il fenomeno davvero interessante: la sua struttura fisica, il suo legame diretto con l’attività solare, la catena di condizioni che devono allinearsi perché quella luce diventi visibile da terra. “Da ingegnere ambientale e divulgatore provo sempre a spiegarla così, senza magia inutile ma con il rispetto che questo fenomeno merita”, dice. E poi entra nel merito: “L’aurora boreale nasce dal Sole. Non “esplode dal nulla” e non è una coincidenza romantica. Il Sole rilascia continuamente particelle cariche e campi magnetici (vento solare). Una parte di questo vento solare viene sempre verso di noi”.

Il passaggio cruciale avviene quando queste particelle incontrano la magnetosfera terrestre. “Il nostro pianeta è protetto dal campo magnetico, che fa da scudo e devia queste particelle verso i poli (ovale dell’aurora). Lì entrano in contatto con l’atmosfera, soprattutto con ossigeno e azoto”. È in quel punto, a decine o centinaia di chilometri sopra la superficie, che avviene lo scontro tra elettroni e gas atmosferici. “È questo scontro che produce la luce: verde, viola, rosso e blu. Niente di più, niente di meno. Fisica pura”. Non c’è nulla da togliere né da aggiungere, ed è proprio questa essenzialità che, secondo Mirandola, rende l’aurora straordinaria. Non perché sia misteriosa, ma perché è reale, misurabile, eppure ancora parzialmente indomabile.

Il problema nasce quando questa complessità viene compressa in formule rassicuranti. “Il problema è che intorno all’aurora oggi girano troppe fake news”, osserva. La più diffusa riguarda la previsione. “La prima: si può prevedere con precisione. No”. Mirandola non nega l’esistenza di strumenti scientifici avanzati, ma ne ridimensiona l’uso improprio. “Si possono fare previsioni probabilistiche su quando una struttura (espulsioni di massa coronale o fori coronali) potrebbe arrivare, finestre temporali, analisi in tempo reale. Ma chi ti vende l’orario esatto o di come l’aurora sarà la sera stessa sta mentendo o non sa di cosa parla”. Il nodo è l’orientamento del campo magnetico solare, il parametro Bz: “Dipende principalmente da quello, e non può essere predetto”.

La seconda semplificazione è geografica, e forse la più dannosa. “Basta andare in Lapponia e la vedi. Falso”. La Lapponia è una condizione favorevole, non una garanzia. “Senza cielo sereno, senza attività solare e senza allontanarsi dall’inquinamento luminoso, non vedi nulla. Il luogo da solo non basta”. Questa frase spiega più di molte guide turistiche perché, a parità di latitudine, alcuni vedono e altri no. Non è questione di fortuna, ma di combinazione e capacità di lettura. “Serve conoscenza, esperienza e decisioni rapide”.

Poi c’è il tema delle immagini, diventato quasi un processo pubblico all’aurora stessa. “La terza: “le foto sono tutte ritoccate”. Anche questa è una semplificazione pigra”. Mirandola non nega la differenza tra sensore e occhio umano. “Le fotocamere vedono meglio dell’occhio umano in condizioni di buio, è vero. I nostri occhi di notte non vedono i colori”. Ma la conclusione è netta: “Quando l’aurora esplode davvero, la vedi eccome”. Il sospetto generalizzato, secondo lui, nasce spesso da un’esperienza parziale o deludente, non da un’analisi onesta.

Il mito più insidioso, però, è quello dell’uniformità. ““Tanto sono tutte uguali”. No”. Mirandola insiste su questo punto perché tocca il cuore dell’esperienza. “Ogni aurora è diversa. Cambia forma, velocità, colore, intensità. È come dire che tutti i temporali sono uguali solo perché piove”. Ridurre l’aurora a una categoria fissa significa perdere la sua natura dinamica, il suo carattere irripetibile. Ed è proprio per contrastare questa deriva che sente il bisogno di intervenire pubblicamente: “Il motivo per cui sento il bisogno di correggere queste cose è semplice: l’aurora non è un prodotto da vendere con promesse facili. È un fenomeno naturale complesso, che va rispettato e capito”.

Capirla, aggiunge, cambia anche il modo di viverla. “Quando la capisci davvero, smetti di inseguire illusioni e inizi a vivere esperienze autentiche”. Non è un invito alla rinuncia, ma a uno spostamento di sguardo: meno attesa passiva, più consapevolezza attiva. È su questo terreno, fatto di fisica, limiti e scelte, che si costruisce il lavoro di chi non si limita a guardare il cielo, ma lo attraversa notte dopo notte.

Duecentodieci notti e una sola regola

Dire che in un anno ha visto 210 aurore rischia di suonare come un record, quasi un dato da collezione. In realtà, quel numero racconta soprattutto un metodo, e una disponibilità totale a vivere secondo i tempi dell’Artico. “Sì, la scorsa stagione ne ho viste circa 210”, spiega Mirandola, “e quella che mi ha colpito di più è stata il 10 ottobre. Ero da solo con un gruppo a Capo Nord e siamo stati gli unici a vedere la seconda tempesta geomagnetica più forte di questo ciclo solare mentre il resto della Lapponia era sotto le nuvole”. Un evento raro non perché eccezionale in astratto, ma perché intercettato nel punto giusto, al momento giusto, mentre altrove il cielo era chiuso. “Una delle aurore più rosse che io abbia mai visto”.

È qui che cade l’idea dell’aurora hunter come figura romantica, armata solo di pazienza e fortuna. “Essere un vero Aurora Hunter, però, non ha quasi nulla di romantico nella pratica quotidiana”. La passione è il prerequisito, ma non basta. “Quello che conta davvero sono le competenze”. E l’elenco che segue chiarisce quanto il lavoro sia più vicino a una sala di controllo che a un’attesa contemplativa.

“Prima di tutto, leggere il cielo e i dati”. Non in modo generico, ma incrociando livelli diversi di informazione. “Devi saper interpretare modelli meteo, nuvolosità a diverse quote, vento, umidità, radar satellitari”. E nello stesso tempo, mantenere un occhio costante sull’attività solare. “Monitorare in tempo reale vento solare, Bz, densità, velocità”. Non per anticipare l’evento con sicurezza, ma per scegliere. “Non per fare il “profeta”, ma per prendere decisioni rapide: partire, aspettare, cambiare paese, tornare indietro”.

A questo si aggiunge una componente spesso sottovalutata: la logistica. “Guidare per ore di notte, spesso su ghiaccio, neve, buio totale”. Strade che non concedono margine, tempi che si allungano, condizioni che cambiano in pochi chilometri. “Saper valutare strade, condizioni, tempi”. E poi le persone. “Gestire persone stanche, infreddolite, con aspettative altissime”. La parte più complessa non è sempre il cielo. “Restare lucido quando tutti sono delusi e il cielo è ancora nero e con mille decisioni da prendere: direzioni, decisioni e strade da prendere”.

C’è però una competenza che Mirandola considera decisiva e che raramente viene raccontata. “Saper rinunciare e cancellare i tour certe notti, dire “stanotte no”, anche quando hai clienti, pressione, costi, social, ego”. Nell’Artico, forzare una scelta può avere conseguenze concrete. “La natura non perdona chi forza le decisioni soprattutto in condizioni di meteo avverso”. È una linea che separa l’esperienza dalla responsabilità, e che distingue chi accompagna davvero da chi promette comunque.

Infine, c’è l’aspetto umano, quello che non compare nei report né nei post. “Vivere e lavorare qui ogni notte significa accettare solitudine, ritmi sballati, freddo vero, silenzi lunghi”. Non è una condizione temporanea, ma una quotidianità. “Devi stare bene con te stesso. Se cerchi solo l’adrenalina o la foto perfetta, non resisti”. Per questo Mirandola rifiuta anche la definizione più diffusa del suo ruolo. “Un Aurora Hunter non “insegue luci nel cielo”. Legge segnali, prende responsabilità, si muove nel buio quando altri dormono, e accetta che, alla fine, è sempre l’Artico ad avere l’ultima parola”.

Clima che cambia, turismo che cresce

Per chi vive la Lapponia ogni giorno, il cambiamento climatico è una condizione operativa che modifica il lavoro notte dopo notte. Mirandola lo osserva con l’occhio dell’ingegnere prima ancora che con quello del divulgatore. “Il cambiamento climatico qui non è una previsione futura. È già realtà”. Non riguarda direttamente l’aurora, che resta legata all’attività solare, ma tutto ciò che le sta intorno e che ne rende possibile l’osservazione.

Le differenze più evidenti sono meteorologiche. “Gli inverni sono mediamente più instabili, con cicli di gelo e disgelo sempre più frequenti”. Questo significa neve meno prevedibile, laghi che gelano più tardi o in modo disomogeneo, strade che cambiano condizione in poche ore. “Le condizioni meteo cambiano molto più velocemente rispetto a dieci o quindici anni fa”. Per chi lavora sull’aurora, la conseguenza è immediata: la lettura del meteo diventa più complessa, meno lineare, più dipendente dall’esperienza diretta sul territorio. I modelli restano strumenti fondamentali, ma da soli non bastano più.

Anche il modo in cui si osserva l’aurora ne risente. “Le finestre di cielo sereno sono spesso più brevi e improvvise”. Questo rende decisiva la capacità di muoversi, adattarsi, prendere decisioni rapide. È uno dei motivi per cui, secondo Mirandola, l’idea di un tour statico oggi mostra tutti i suoi limiti. L’Artico richiede elasticità, non rigidità. Richiede di accettare che una serata possa ribaltarsi in pochi chilometri, che una scelta valida alle 18 non lo sia più alle 21, che l’esperienza si costruisca per sottrazione di certezze più che per accumulo.

Dentro questo contesto ambientale in trasformazione si inserisce il boom turistico. “Il boom è sotto gli occhi di tutti”, osserva Mirandola, ma rifiuta una lettura semplificata. “Il turismo è un’enorme opportunità, perché porta risorse, lavoro e attenzione internazionale a territori che per decenni sono stati marginali”. Allo stesso tempo, però, avverte che la crescita non regolata comporta rischi reali. “Diventa un rischio quando cresce senza cultura, senza limiti e senza rispetto”. L’Artico non è un ambiente neutro: è un ecosistema fragile, dove anche piccoli impatti ripetuti possono accumularsi e lasciare segni duraturi.

È qui che entra in gioco la responsabilità di chi accompagna. “Chi accompagna le persone nell’Artico oggi ha una responsabilità enorme”. Non basta portare lontano dalle luci o fermarsi nel punto giusto. “Non basta “mostrare” l’aurora”. Serve spiegare dove ci si trova, perché certi comportamenti sono sbagliati, perché non si cammina ovunque, perché la natura non è uno sfondo. Nei suoi tour, Mirandola cerca un equilibrio preciso: permettere l’esperienza senza consumare il luogo. “Portare le persone lontano dalle luci, sì, ma anche insegnare a muoversi con rispetto, a lasciare i luoghi come li abbiamo trovati”.

L’aurora, in questo schema, diventa un tramite più che un obiettivo. “«L’aurora è un privilegio, non un diritto acquistabile”. È una frase che sposta il baricentro dall’evento al contesto, dal risultato al processo. E che apre una riflessione più ampia su come il turismo artico verrà gestito nei prossimi anni. “Se gestito male, il turismo può consumare l’Artico. Se gestito bene, può diventare uno degli strumenti più forti per proteggere ciò che rende questo luogo unico”.

La linea di demarcazione, per Mirandola, resta una sola. “La differenza non la fa il numero di visitatori, ma la qualità delle scelte”. Una frase che non chiude il discorso, ma lo sposta più avanti, dentro una responsabilità che riguarda operatori, viaggiatori e territorio allo stesso tempo.

Probabilità, errori ricorrenti e scelte che fanno la differenza

Quando Mirandola parla di viaggi artici, lo fa sgomberando subito il campo da un equivoco che continua a circolare con insistenza. “Quando parlo di viaggio artico, lo dico subito in modo onesto: non esiste un viaggio “sicuro” per vedere l’aurora”. È una frase che, da sola, basterebbe a ridimensionare una parte consistente dell’offerta turistica oggi sul mercato. Ma subito dopo arriva il punto decisivo: “Esiste un modo intelligente per aumentare drasticamente le probabilità”. Ed è in questo spazio, tra l’assenza di garanzie e la possibilità di fare scelte corrette, che prende forma il suo lavoro.

Lorenzo Mirandola aurora hunter
Lorenzo Mirandola, ‘Aurora hunter’

Il principio operativo è semplice solo in apparenza. “Per vedere l’aurora servono tre cose insieme: buio, cielo sereno e attività solare”. Il problema, come sottolinea, è che queste tre condizioni “raramente coincidono nello stesso posto”. È qui che si crea la frattura tra il viaggio organizzato in senso tradizionale e un approccio dinamico. “La differenza tra un viaggio organizzato “classico” e un tour è che noi non aspettiamo l’aurora in un punto fisso. La inseguiamo”. Ogni sera diventa una nuova analisi: meteo, nuvolosità a diverse quote, vento, satelliti, dati solari in tempo reale. Poi la decisione, che può voler dire anche centinaia di chilometri di spostamento. “Finlandia, Svezia o Norvegia non sono “destinazioni”, sono strumenti”.

È su questa impostazione che nasce Arctic Road Trips, il progetto fondato da Mirandola per portare le persone lontano dall’idea di un’esperienza statica. I periodi consigliati non cambiano molto rispetto a quanto indicato da altri professionisti del settore, ma il modo in cui vengono vissuti sì. “Settembre-ottobre e febbraio-marzo restano i periodi più equilibrati: buio, paesaggi spettacolari e meteo spesso più gestibile”. Subito dopo, però, arriva la precisazione: “Ma la vera differenza non è il mese: è la flessibilità serale”.

È in questa flessibilità che si annidano gli errori più comuni, quelli che Mirandola vede ripetersi ogni stagione tra chi si affaccia per la prima volta all’Artico. Restare vicino alle città e sperare che basti. Guardare solo l’indice KP ignorando completamente il meteo. Prenotare una o due notti affidandosi alla fortuna. Scegliere tour statici con orari rigidi. Costruire aspettative basate esclusivamente su ciò che si è visto sui social, dimenticando che “l’aurora non è uguale ad occhio nudo”. Errori che, messi insieme, riducono drasticamente le probabilità e amplificano la delusione.

Nel metodo di Mirandola, questi passaggi vengono affrontati a monte. “Con noi questi errori semplicemente non esistono, perché ogni decisione viene presa la sera stessa, non settimane prima”. Agli ospiti viene chiesto poco, ma in modo preciso. “Chiediamo solo di vestirsi bene per il freddo”. Tutto il resto rientra nella responsabilità di chi guida: logistica, sicurezza, scelta dei luoghi, gestione dei tempi, capacità di capire quando aspettare e quando muoversi. Anche la fotografia viene trattata come parte dell’esperienza, non come obiettivo isolato. “Aiutiamo a leggere l’aurora: capire se sta “caricando”, se conviene cambiare lente, se vale la pena aspettare o spostarsi”. Non è un corso, ma una condivisione sul campo.

Il punto centrale resta la promessa o, meglio, la sua assenza. “Non promettiamo l’orario esatto, ma massimizziamo le possibilità reali”. Non viene venduto un punto fisso, ma “chilometri di decisioni intelligenti”. E soprattutto non viene mascherato il risultato. “Se l’aurora non si vede, non facciamo finta di nulla”. È una posizione che si riflette anche nelle scelte più concrete. “Per quello non facciamo pagare i tour di una notte se non vediamo l’aurora”. Non come gesto simbolico, ma come assunzione di responsabilità: spostare il rischio da chi viaggia a chi organizza.

Vedere l’aurora non è questione di fortuna”, ribadisce Mirandola. “È questione di metodo, esperienza e scelte fatte ogni singola notte”. Ed è su questa sequenza di decisioni, più che sull’evento finale, che si misura la differenza tra un viaggio costruito sull’attesa e uno fondato sulla comprensione del territorio e del cielo.

Raccontare ciò che non si vede dell’aurora

Dopo centinaia di notti passate a inseguire il cielo artico, il desiderio che Mirandola indica non riguarda un’aurora più intensa, più rara o più spettacolare delle altre. “Dopo centinaia di aurore e anni passati qui, in mezzo al buio e al silenzio dell’Artico, il sogno che mi manca non è vederne un’altra”. Il punto di arrivo, paradossalmente, non è il fenomeno in sé, ma tutto ciò che lo circonda e che raramente entra nel racconto pubblico.

“Il mio sogno oggi è realizzare un documentario sulla caccia all’aurora boreale. Non l’aurora patinata dei social, ma il dietro le quinte: le notti di attesa, le strade infinite, le decisioni sbagliate, il freddo che entra nelle ossa, i momenti in cui torni indietro senza nulla… e quelli, rarissimi, in cui tutto si allinea”. È un progetto che nasce da una constatazione semplice: l’esperienza reale dell’aurora è fatta soprattutto di ciò che non produce immagini. Chilometri percorsi senza risultato, ore ferme sotto un cielo che non si apre, scelte che si rivelano errate solo a posteriori. Tutto ciò che viene normalmente escluso dal racconto perché non “funziona” in termini di aspettativa.

Dentro questa idea di documentario c’è anche un’immagine precisa, che Mirandola racconta come un’ossessione ricorrente. “Una band che suona sotto l’aurora boreale. Non un concerto, non un palco. Poche persone, strumenti essenziali, zero luci artificiali. Qualcosa alla Coldplay, per atmosfera e sensibilità, più che per fama”. L’aurora, ancora una volta, non come protagonista assoluta, ma come contesto che impone misura e ascolto.

“Quello sarebbe l’attimo perfetto: non ‘catturare’ l’aurora, ma farle spazio. Lasciare che sia lei a guidare tutto”. È una visione che riassume anche il suo approccio quotidiano: non forzare, non anticipare, non sovrapporsi. Dopo tante notti, la gerarchia si è chiarita. “Ho capito una cosa: l’aurora non è mai il soggetto principale, è il contesto”. Un elemento che ridimensiona chi guarda e chi racconta. “È ciò che ti ricorda quanto sei piccolo e quanto sei fortunato a esserci”.

Se dovesse descriverla a chi non l’ha mai vista, Mirandola non cerca metafore elaborate né immagini rassicuranti. Riduce tutto a una constatazione secca, che suona più come un avvertimento che come una promessa: “L’aurora è la prova che la natura può ancora interromperti, anche quando pensi di avere il controllo”.

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