I lavoratori del gruppo siderurgico Ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, hanno intensificato le proteste in tutti gli stabilimenti italiani, da Taranto fino a Genova, Novi Ligure e Racconigi. La mobilitazione è rivolta nei confronti del Governo, accusato di non avere un piano serio per il futuro dell’acciaio italiano e di voler imporre una riorganizzazione che, secondo i sindacati, equivale a una chiusura.
Le ragioni dello sciopero e il “piano corto”
Lo sciopero deriva dall’estrema incertezza sul futuro del gruppo e dei suoi lavoratori, in particolare dopo il fallimento della seconda gara per la vendita, tenutasi a novembre 2025. Il Governo ha presentato ai sindacati (Fim, Fiom, Uilm, Usb) un cosiddetto “piano corto“. Questo progetto prevede una decarbonizzazione rapida degli impianti in quattro anni, seguita da una vendita a privati.
Ridurre le emissioni inquinanti e passare alla produzione dell’acciaio con metodi più puliti, come i forni elettrici, abbandonando l’uso del carbone, è la direzione che si intende intraprendere. Ma, nonostante la necessità di proteggere l’ambiente, i sindacati vedono in questo piano un tentativo di ridimensionare o chiudere gran parte della produzione. I metalmeccanici e i sindacati degli appalti (come Filcams Cgil, Fisascat Cisl, UilTrasporti e Uiltucs) definiscono questo rischio una “catastrofe sociale” e un fallimento dello Stato.
“Difenderò i lavoratori fino in fondo – ha affermato la sindaca di Genova Silvia Salis – perché fanno parte del futuro di questa città e secondo me questa altro che un problema, è una grande garanzia. Non vi preoccupate che ogni volta che mi sederò col ministro nel rispetto istituzionale delle parti continuerò a chiedergli delle risposte definitive. Cosa fa lo Stato se non ci sono investitori? Perché non è che possiamo dire sono aree molto appetibili. Per carità lo sono. Al netto di quella che è la produzione industriale, le aree che avanzano sono molto appetibili e verranno destinate a qualcos’altro. Ma io voglio sapere cosa succede alla produzione industriale – ha aggiunto la sindaca -, perché questa città non si può permettere 1200 persone con tutto quello che ne consegue senza lavoro. Quindi si parla del futuro di Genova, del vostro futuro, delle vostre famiglie. Non faremo sconti a nessuno. Potete avere proprio la più grande rassicurazione da parte mia. Questa amministrazione è al vostro fianco e come sindaca farò qualsiasi cosa per farmi dare delle risposte”.

Da Genova a Taranto: la produzione a rischio
Le proteste hanno coinvolto due fronti principali, sebbene mossi dalla stessa preoccupazione per il futuro occupazionale. A Taranto, sede dell’impianto più grande e dell’unico altoforno ancora in funzione nel gruppo, i sindacati metalmeccanici hanno proclamato lo sciopero a oltranza chiedendo il ritiro del piano e l’apertura immediata di un tavolo di negoziazione a Palazzo Chigi.
Durante la mobilitazione, centinaia di operai hanno bloccato i binari tra l’acciaieria e l’altoforno. Tuttavia, il blocco è durato solo poche ore. I lavoratori si sono ritirati per un motivo cruciale: una fermata improvvisa dell’impianto avrebbe potuto causare danni permanenti alla struttura e, di conseguenza, la diffusione di emissioni nocive diffuse nell’ambiente circostante. La protesta è poi continuata bloccando la Strada Statale 100, davanti al siderurgico e alla vicina raffineria Eni.
Il rischio di fallimento coinvolge direttamente non solo gli 8.000 operai diretti di Acciaierie d’Italia, ma anche circa 3.000 famiglie che dipendono dal settore degli appalti multiservizi (servizi di pulizia civile e industriale). I sindacati di queste categorie (Filcams Cgil, Fisascat Cisl, UilTrasporti, Uiltucs) hanno lanciato un appello unitario, definendo il rischio occupazionale una minaccia per la “non sopravvivenza” di tutta la città di Taranto. Questi lavoratori dell’indotto (o appalti), secondo i sindacati, sono il fronte “più esposto e vulnerabile” della crisi e temono di essere i primi a perdere il lavoro senza adeguati ammortizzatori sociali.
A Genova, la protesta è stata altrettanto massiccia. I lavoratori dello stabilimento di Cornigliano, che si occupa della lavorazione “a freddo” dell’acciaio, marciano da ieri insieme ai colleghi di Ansaldo Energia e Fincantieri. Hanno bloccato l’ingresso dell’aeroporto “Cristoforo Colombo” e poi occupato un tratto dell’autostrada A10, dirigendosi verso il Ponte San Giorgio. Il timore dei lavoratori genovesi è legato a due fattori interdipendenti:
- La dipendenza da Taranto: lo stabilimento di Genova dipende dai coils (bobine di acciaio semilavorato) che devono arrivare dal Sud Italia. Senza questi, l’attività si ferma.
- Lo spostamento della produzione: il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit), guidato da Adolfo Urso, ha ipotizzato di trasferire gran parte della lavorazione della banda zincata (che a Cornigliano rappresenta due terzi della produzione annuale, circa 200.000 tonnellate su 300.000 totali) verso Novi Ligure. A Genova resterebbe solo la produzione di banda stagnata (la latta, usata per gli scatolami alimentari). Toglierla significherebbe sostanzialmente fermare l’attività. Il delegato Fiom Cgil, Armando Palombo, ha richiesto esplicitamente al Governo che i rotoli continuino a essere inviati a Genova.
Le richieste e la risposta del Governo
In sintesi, i sindacati metalmeccanici chiedono con fermezza il ritiro del “piano corto” e l’apertura immediata di un tavolo unico di negoziazione a Palazzo Chigi, sede del Governo, per discutere con la presenza della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Per loro, un confronto serio è l’unico modo per proteggere l’occupazione e il futuro della siderurgia nazionale. Essi accusano il Governo di voler dividere Nord e Sud, comunità e lavoratori convocando incontri separati.
In risposta, il ministro Adolfo Urso ha convocato una serie di riunioni separate con le sole istituzioni locali e regionali (Regioni e Comuni) interessate dagli stabilimenti, per definire le migliori condizioni di rilancio. Tali incontri si terranno prima con le istituzioni piemontesi (Novi Ligure, Racconigi), poi con quelle liguri (Genova) e pugliesi (Taranto, Statte), questa settimana. Un confronto unitario con i rappresentanti di tutte le istituzioni è previsto solo in una fase successiva, la settimana successiva.
A Taranto, Fiom e Uilm hanno disertato alcuni incontri separati del Mimit, mentre Fim e Usb hanno partecipato, constatando l’assenza di novità sostanziali.
La crisi è legata all’impatto ambientale. Questo dettaglio evidenzia la difficoltà di trovare un punto di equilibrio e una strategia di programmazione chiara per il futuro: il Gruppo Ex Ilva è un motore economico per migliaia di famiglie, ma i suoi impianti, soprattutto a Taranto, sono un pericolo per la salute. La transizione a sistemi meno inquinanti (come i forni elettrici che usano rottami di ferro) è necessaria, ma essa implica la riorganizzazione del lavoro e la formazione dei dipendenti, un forte ridimensionamento del gruppo.