Necessità di un approccio complesso a una questione complessa e urgenza dell’azione: questo il fil rouge dell’incontro dedicato a ‘Crediti Ambientali e Finanza Climatica’ che si è tenuto ieri presso la Sala Zuccari del Senato. Organizzato da Forever Bambù, azienda italiana attiva nel mercato volontario dei crediti di carbonio, ha visto partecipare esperti del settore, accademici e rappresentanti istituzionali, con la moderazione del giornalista scientifico Marco Merola, specializzato in temi ambientali.
Il punto dipartenza è la ‘lotta’ alla Co2, che rispetto all’epoca degli Accordi di Parigi (2015) si è ampliata ed è diventata indifferibile: oggi non basta più diminuire le emissioni ma, come ha fatto notare Mauro Lajo, amministratore delegato di Forever Bambù, è necessario anche togliere “quelle in più nell’atmosfera, che provocano le problematiche che oggi patiamo”. Ricordando che una parte di esse è necessaria alla nostra sopravvivenza, dato che ‘scherma’ dai raggi solari.
Il mercato dei crediti di carbonio può essere una delle vie percorribili per raggiungere gli obiettivi di Parigi, e di questo si è approfonditamente parlato durante i quattro tavoli che hanno animato il convegno.
Cosa sono i crediti di carbonio
Un credito di carbonio corrisponde a 1 tonnellata di Co2 equivalente e nasce da progetti ad hoc che riducono, evitano o rimuovono gas serra. In quest’ultimo caso si parla di crediti da rimozione di carbonio (CDR). Il credito acquisito tramite tali progetti deve essere certificato da un ente terzo e a quel punto può essere comprato dalle aziende, che così compensano le proprie emissioni, secondo il principio per cui l’atmosfera terrestre è unica e dunque le emissioni inferiori di qualcuno possono bilanciare quelle di qualcun altro.
“Per raggiungere net zero serve rimuovere almeno 10 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2050. Adesso siamo all’1%”, ha notato l’ad di Forever Bambù. Ecco dunque che “i CDR sono indispensabili per la neutralità climatica”, ha continuato Lajo ricordando l’urgenza della questione, dato che il Mediterraneo è un “hot spot climatico”, ovvero una delle aree del pianeta dove le conseguenze del riscaldamento climatico sono più impattanti.
In tutto ciò, le aziende hanno due strade: possono mitigare, lavorando ‘insetting‘, ovvero all’interno del proprio perimetro (ad esempio piantando una foresta su terreni propri), o compensare all’esterno, utilizzando la finanza climatica per sostenere progetti che assorbano CO2 e quindi pagando per i crediti di carbonio.
Luci e ombre del mercato volontario dei crediti di carbonio
La compravendita avviene nel mercato dei crediti di carbonio, volontario o obbligatorio. Quest’ultimo è il sistema ETS (Emission Trading System) messo in piedi per prima dall’Unione europea proprio per regolare un ambito che altrimenti negli ultimi anni ha mostrato molte ombre.
Infatti, sebbene il mercato, anche volontario, riconosca la necessità di trasparenza, affidabilità e responsabilità, nel concreto i dati, riportati dal presidente di Forever Bambù Emanuele Rissone, ci dicono che il 93% dei carbon credits non era quello che diceva di essere. Piuttosto, nascondeva puro greenwashing, emissioni reali inferiori a quelle dichiarate o addirittura veri e propri falsi. Di conseguenza, ha ricordato Simone Borghesi, vicerettore Relazioni Internazionali dell’Università degli Studi di Siena, “la qualità dei carbon credits è stata messa fortemente in discussione”.
Eppure, il sistema ha i suoi vantaggi, almeno sulla carta: stimola investimenti in energie pulite, riforestazione e agricoltura sostenibile, aiuta aziende e Paesi a rispettare gli obiettivi climatici, favorisce miglioramenti ambientali e sociali nelle comunità coinvolte.
Ecco perché, secondo Borghesi, anche il mercato volontario va regolato: “Può sembrare un ossimoro, ma dobbiamo preservare la fiducia”, che è “la sfida più grande” e che riguarda entrambi i mercati.
In cerca di una chiara qualificazione giuridica dei carbon credits
Nonostante le criticità – tra le altre: incerta valutazione del valore dei carbon credits, difficoltà a valutare i benefici, impermanenza del progetto intrapreso (es. una foresta che va a fuoco), carbon dripping (acquisto dei carbon credits senza un’adeguata remunerazione alla comunità locale) – “sui crediti bisogna puntare parecchio”, ha sostenuto Antonio Leandro, professore di diritto internazionale all’Università di Bari.
“Non perché gli ETS siano meno importanti, ma perché sono dei permessi che non hanno dietro un progetto dal basso, mentre il credito di carbone ci dice che qualcosa è stato fatto per la mitigazione”, ha spiegato.
Il problema è che “il credito di carbonio, a differenza dell’ETS, non ha una chiara qualificazione giuridica”, ha continuato Leandro. “È un asset, un bene, un insieme di diritti contrattuali”? Non è una questione di lana caprina, perché nel momento in cui il credito viene validato e certificato “diventa un asset finanziario che può circolare autonomamente in transazioni finanziarie secondarie”. E se ad esempio il progetto sottostante viene annullato, o si scopre che era falso, il carbon credit viene cancellato dal registro ma nel frattempo su quel credito c’è stata finanza.
“A monte servono l’affidabilità del progetto, la trasparenza e la responsabilità ma occorre pure un quadro giuridico chiaro”, anche attraverso la soft Law, ovvero “linee guida, principi generali individuati dagli stakeholders della finanza su come gestire il credito come asset nel mercato volontario”, utili agli operatori del settore per avere “prevedibilità” e alla politica come “modello per forgiare la normativa più adatta alla finanza”, ha concluso l’esperto.

Il sistema regolamentato: l’ETS
Quanto al sistema ETS, questo prevede un totale di emissioni consentite per i vari settori, che viene ‘spacchettato’ in quote che possono essere commercializzate: chi inquina di più compra le quote da chi inquina di meno. Infatti, i critici lo definiscono ‘permesso di inquinare’. Si tratta comunque di un ambito ben regolato, controllato e certificato. E in pieno sviluppo.
Borghesi ha ricordato che “l’Europa è stato il primo mercato ETS internazionale”, e che “questi mercati poi si sono rapidamente diffusi globalmente. Attualmente, 38 giurisdizioni nel mondo hanno adottato sistemi ETS, coprendo circa il 55% del Pil mondiale, un terzo della popolazione e il 19% delle emissioni globali. Altri Paesi, come Brasile, India, Bahrein e Argentina, stanno implementando o ideando sistemi ETS”.
Un sistema regolamentato offre maggiori certezze, ma anch’esso non è privo di criticità. Una di queste è stata affrontata da Antonio Errigo, vicedirettore generale Alis (Associazione logistica dell’intermodalità sostenibile) che ha definito gli ETS “una vera e propria tassazione” che si abbatte “quasi esclusivamente” sul settore del traporto marittimo. Il quale peraltro è quello che “contribuisce alle emissioni di gas serra per il 2% nonostante movimenti il 98% delle merci mondiali”. Ciò distorce la concorrenza e rischia di provocare il ‘backshift modale’, cioè l’indesiderato ritorno delle merci su strada. Anche perché “la sanzione europea è applicata al 100% per i viaggi intraeuropei e soltanto al 50% sui viaggi extraeuropei”, rendendo la distorsione ancora più ampia. “Chiediamo che i proventi degli ETS vengano reinvestiti in misure incentivanti a favore del comparto del trasporto marittimo intermodale”, ha concluso Errigo.
Quanto vale il mercato dei crediti di carbonio
Ma quanto vale il mercato dei crediti di carbonio? “È già un mercato incredibilmente ricco”, ha sottolineato Merola. Si parla di quasi 900-950 miliardi di euro su scala mondiale. “Di questi l’Europa è il faro assoluto, perché con quasi 200 miliardi di cosiddetti ETS è il mercato più ricco che ci sia nel mondo”, ha dettagliato il giornalista.
Quanto al mercato volontario, Rissone ha snocciolato: “Nel 2024 è stato di 3,8 miliardi di euro, di cui il 21% in Europa. Ma nel 2030 col Fit for 55 vi sarà l’obbligatorietà di assorbire o comunque mitigare il 55% della propria impronta carbonica. Quindi si prevede un incremento importante nell’utilizzo di questo strumento”, con stime che parlano di un giro da 23 miliardi mondiali”, 4,8 in Europa.
“L’Italia, terza potenza europea industriale, spenderà un quarto di questa cifra, ovvero circa 1 miliardo di euro all’anno dal 2030 e cifre più alte dal 2040, quando l’obiettivo sarà il 90% di riduzione”, ha precisato il presidente di Forever Bambù.
Il bambù, “il maiale delle piante”
Se l’obiettivo dunque è la riduzione delle emissioni e l’assorbimento/immagazzinamento permanente del gas serra in eccesso già presente in atmosfera, il bambù può giocare un ruolo, dato che, ha riportato Lajo, assorbe il 57% in più di CO2 di un bosco. Da qui il business model di Forever Bambù: acquistare terreni abbandonati, risistemarli, ripiantarli a bambuseto, ottenere CDR cedibili alle aziende e sviluppare filiere di trasformazione. Co-benefici: il recupero di saperi in via di sparizione e aumento dell’occupazione locale in tutte le fasi del processo.
“Il bambù è come il maiale nel mondo animale”, ha detto Lajo, cioè si può usare per molteplici usi: dai pannelli isolanti per l’edilizia a una sorta di ‘plastica’ naturale, da creazioni di moda – borsette, maglie in fibra di bambù – alla produzione di silice minerale, preziosa per semiconduttori.
E allora cosa manca? Anche se ‘work in progress’, serve un’adeguata attività legislativa, “per sostenere queste attività”, ha affermato Lajo.
E serve cambiare la rotta del denaro investito nell’acquisto di crediti, “attualmente diretto in modo unilaterale verso l’Asia, l’Africa e il sud del pianeta”, dove peraltro i fondi facilmente “spariscono, spesso i crediti sono falsi e da dove non torna niente indietro”, ha sottolineato Rissone.
Ma dal 2015 è possibile avviare progetti anche in Europa e in Italia, col vantaggio di poterne verificare più facilmente i risultati. “Lo so che le leggi devono essere fatte in Europa, ma facciamo in modo che quei miliardi che stiano andando investiti male rimangano investiti sul nostro territorio”, ha concluso Rissone.
La politica: meno norme e più interventi strutturali
E allora cosa ne pensa la politica? La necessità (e l’attuale mancanza) di interventi strutturali è stata sottolineata dal senatore Antonio Salvatore Trevisi, membro della VI Commissione Finanze e Tesoro, secondo cui gli incentivi non devono “drogare il mercato” ma favorire la filiera e lo sviluppo e quindi devono essere usati in maniera intelligente.
Anche Erica Mazzetti, deputata, membro della VIII Commissione Ambiente Territorio e Lavori Pubblici, non ha dubbi: occorre “evitare la stratificazione della regolazione della materia” e “proteggere al 100% la nostra industria”. Per Mazzetti la soluzione passa da “meno leggi e più testi quadro” che diano principi e indicazioni flessibili in modo da far fronte alla velocità dei cambiamenti, anche geopolitici, in atto.
“Sono europeista ma l’Europa ci obbliga a degli obiettivi, mentre occorre guardare alle specificità dei Paesi e dei settori. Non significa abbandonare la tutela dell’ambiente, ma prima di tutto tutelare le persone”, puntualizza Mazzetti.
Un approccio concreto condiviso da Michele Vietti, presidente Anfir (Associazione Nazionale Finanziarie Regionali), che ha fatto riferimento al ruolo degli enti locali: “Solo il territorio consente una programmazione efficace verso gli obiettivi”. Per centrare la neutralità climatica entro il 2050 e in modo socialmente equo, come chiesto dall’Europa, occorre “un’azione botton down pragmatica”, ha sottolineato infine il presidente Anfir.