Chi sopravvive al caldo? Dipende da dove vivi: l’Italia diseguale dei rifugi climatici

Cosa sono, dove si trovano e come funzionano i luoghi pubblici che possono salvare vite durante le ondate di calore
3 Luglio 2025
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Ondata di caldo
Caldo record

A luglio 2025, in Italia, la normalità sono 42 gradi centigradi all’ombra, strade vuote nelle ore centrali, blackout elettrici sporadici e linee telefoniche d’emergenza sovraccariche. Ma la vera novità è un’altra: per la prima volta si stanno attivando su scala nazionale i rifugi climatici, spazi pubblici – parchi, biblioteche, centri civici – riconosciuti ufficialmente come luoghi dove ripararsi dal caldo estremo. Sono mappati, hanno requisiti precisi e alcune città hanno già avviato la loro prima rete.

Cosa sono i rifugi climatici

Il rifugio climatico è un luogo fisico e identificabile dove è possibile trovare temporaneo sollievo dagli effetti del caldo estremo. Le linee guida – adottate anche dal Ministero della Salute e recepite da alcune Regioni – sono precise: devono garantire temperatura interna controllata, accesso all’acqua, sedute, servizi igienici e una permanenza senza limiti temporali durante l’attivazione dell’allerta. Biblioteche pubbliche, centri anziani climatizzati, musei, sale civiche, a volte anche centri commerciali o parchi con ombra e fontanelle, se attrezzati.

La funzione è di tipo sanitario e sociale: ridurre il rischio di mortalità tra le fasce vulnerabili (over 75, cronici, persone senza fissa dimora), diminuire gli accessi ospedalieri e alleggerire il carico sui servizi d’emergenza. Secondo i dati del sistema Heat-Health Watch, un allarme livello 3 può triplicare i decessi giornalieri negli anziani. Ma un rifugio non è uno spazio qualunque “fresco”: serve una regia. La Protezione Civile lo attiva in collaborazione con gli enti locali. Il personale deve essere formato, presente, e in grado di monitorare i presenti.

Il punto debole? Il sistema non è obbligatorio. Ogni Comune può decidere se e come farlo. Non c’è un vincolo nazionale, solo raccomandazioni. Questo lascia ampio spazio a discrezionalità, scarti territoriali e improvvisazioni.

La geografia dei rifugi

Il panorama italiano, oggi, è estremamente disomogeneo. Alcune città hanno creato mappe, app, liste e reti logistiche. Altre si limitano a generiche raccomandazioni su “restare al fresco”. Venezia consiglia tre ore al giorno in musei e parchi, ma non ha elenchi ufficiali. Torino ha individuato centri climatizzati aperti tutta l’estate, ma alcuni sono a pagamento. Roma è ancora in fase di definizione: ha una lista provvisoria, ma la mappa ufficiale arriverà nel 2026. A Milano – tra le città più colpite dalle isole di calore – , invece, manca una lista ufficiale, ma il Comune gestisce “case dell’acqua”, sale climatizzate per anziani e centri di quartiere che de facto funzionano da rifugi. Il progetto europeo Life Metro Adapt ha mostrato come le isole di calore notturne siano concentrate nelle zone più impermeabili: piazza Duomo e Repubblica registrano +4 °C rispetto alle aree verdi. A Napoli, Cleanap – realtà indipendente – ha realizzato una mappa di 28 luoghi freschi, tra vie alberate e giardini pubblici.  Bologna e Firenze sono le più avanzate sul piano sistemico.

L’Emilia-Romagna è tra le Regioni che hanno strutturato un protocollo formalizzato: il rifugio climatico viene inserito nel piano di emergenza locale, viene verificata la tenuta degli impianti (climatizzazione certificata, approvvigionamento idrico, accessibilità) e attivato con preavviso in base ai bollettini di Arpae. I Comuni sopra i 20mila abitanti devono disporne almeno uno, accessibile a piedi o con mezzi pubblici. In alcune città – come Bologna, che ha mappato 15 punti (biblioteche, musei, piazze coperte)  – vengono attivate anche convenzioni con hotel o B&B per l’accoglienza notturna di persone segnalate dai servizi sociali o da medici di base.

Firenze ha realizzato una delle prime mappe pubbliche: 44 rifugi climatici censiti – 37 giardini ombreggiati e 7 biblioteche – con accesso libero e geolocalizzazione. La mappa mostra la percentuale di ombra, presenza di fontanelle, climatizzazione e accessi.

Il problema resta l’eterogeneità delle risposte. Buon esempio sono città come Barcellona e New York. La città catalana, per esempio, ha iniziato nel 2020 a mappare sistematicamente i “climate shelters”: oggi ne conta quasi 400 e il 98% dei residenti vive a meno di 10 minuti a piedi da uno di essi. A New York, il Dipartimento della Salute aggiorna ogni estate una lista di centri climatizzati e cooling centers, attivati in base al rischio per fasce di popolazione vulnerabili.

In Italia, la frammentazione resta invece la norma. Serve una strategia unificata, una piattaforma pubblica, linee guida vincolanti e standard minimi. Altrimenti, come già accade per la crisi idrica o per l’abitare, la fragilità diventa una questione di geografia. E di fortuna.

Chi può usarli e come

Nella maggior parte dei casi, i rifugi climatici sono ad accesso libero, senza prenotazione o limiti di permanenza. Ma l’accessibilità reale non si misura solo in termini normativi: conta sapere dove sono, come raggiungerli, se sono aperti davvero. Alcuni Comuni (come Bologna o Torino) hanno predisposto navette gratuite per over 75 o persone con mobilità ridotta. In altri casi è tutto lasciato alla rete familiare o al passaparola.

Chi vive solo, senza connessioni sociali o digitali, rischia di non sapere nulla. A Firenze i rifugi sono visibili su una mappa online, ma chi non usa uno smartphone? Milano invia sms a cittadini con patologie croniche, se iscritti a certi registri sanitari. Ma non esiste un canale nazionale coordinato.
E ancora: alcuni rifugi prevedono l’attivazione solo sopra certe soglie (Livello 3 per almeno due giorni consecutivi), ma intanto la temperatura interna delle case supera i 32°C in molte zone senza condizionatore. Le liste delle persone fragili esistono, ma non sempre sono aggiornate.
In pratica, chi ha bisogno potrebbe non arrivarci. E chi arriva, potrebbe trovarli chiusi o insufficienti.

Il nodo è politico: nessuna norma nazionale impone ai Comuni di predisporre rifugi climatici, né fissa un numero minimo per abitanti, né prevede fondi vincolati. Sono “buone pratiche” finanziabili, non obblighi. Il risultato è che dipende tutto dalla volontà locale e dalla capacità amministrativa.
Ma con temperature che superano ogni previsione e un sistema sanitario già sotto pressione, il rifugio climatico non può più essere un’opzione: deve entrare nei piani regolatori, nelle linee di bilancio, nei percorsi sanitari territoriali.

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