Il cambiamento climatico non produce solo danni ambientali. Ha conseguenze dirette sulla stabilità politica, sulle economie locali e sulla mobilità delle persone. Dalla desertificazione che svuota i villaggi agricoli in Sahel alla salinizzazione delle falde nei delta asiatici, intere comunità si trovano costrette a lasciare le proprie terre non per conflitti o persecuzioni, ma per processi ambientali irreversibili. Eppure, a oggi, non esiste alcuna definizione giuridica condivisa per chi si sposta a causa del clima. I cosiddetti “rifugiati climatici” non sono riconosciuti da trattati internazionali, né protetti dal diritto d’asilo.
In questo vuoto normativo, alcuni Paesi stanno cominciando a muoversi. L’Australia ha lanciato un programma di visto climatico permanente, pensato per accogliere cittadini delle isole del Pacifico minacciate dall’innalzamento del livello del mare. Il primo caso concreto è Tuvalu: una nazione insulare di appena 10.600 abitanti, dove oltre un terzo della popolazione ha già fatto domanda per lasciare l’arcipelago (non per scelta, ma per necessità).
Come funziona il visto climatico
Il programma si chiama Pacific Engagement Visa e prevede l’assegnazione di 3.000 visti permanenti all’anno a cittadini delle isole del Pacifico. Tra queste, Tuvalu è la prima a usarlo come strumento di migrazione climatica sistemica. Il visto consente di trasferirsi in Australia con tutta la famiglia, con accesso a sistema sanitario, sussidi per l’infanzia e istruzione gratuita. Le domande sono aperte fino al 18 luglio 2025 e la selezione avviene per sorteggio casuale, un criterio pensato per garantire equità, ma che introduce anche elementi di incertezza. Per Tuvalu, i posti disponibili quest’anno sono soltanto 280.
Lanciato il 16 giugno, il programma ha registrato un’adesione immediata: 1.124 richieste già presentate, per un totale di 4.052 persone coinvolte. Si tratta di oltre un terzo della popolazione totale del Paese. Secondo le proiezioni della Nasa, entro il 2050 una parte significativa del territorio di Tuvalu sarà sommersa, e già oggi alcune isole registrano inondazioni regolari, con perdita di suolo agricolo e intrusioni salmastre che compromettono l’acqua potabile.
Il visto non nasce da un’iniziativa unilaterale, ma come parte di un accordo bilaterale firmato nel 2024, noto come Falepili Union, che impegna l’Australia anche a fornire assistenza militare, aiuti in caso di disastri naturali e garanzie di continuità statale. In caso di inabissamento completo, Tuvalu manterrebbe status diplomatico e rappresentanza internazionale, pur senza un territorio fisico.
È il primo caso documentato di una strategia nazionale di reinsediamento climatico formalizzata da un governo ospitante. Una risposta pragmatica, che tenta di offrire una via d’uscita a un problema che gli
Chi sono i rifugiati climatici
Il diritto internazionale non prevede alcuna forma di protezione per chi è costretto a migrare a causa del cambiamento climatico. La Convenzione di Ginevra del 1951, che regola lo status di rifugiato, riconosce la protezione solo per chi fugge da “persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica”. Nessuna menzione alle condizioni ambientali.
Alcuni casi individuali hanno contribuito ad alimentare il dibattito. Il più noto è quello di Ioane Teitiota, cittadino di Kiribati, che nel 2013 chiese asilo in Nuova Zelanda dichiarando che il proprio Paese era invivibile a causa dell’innalzamento del mare. La domanda fu respinta, ma nel 2020 il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite stabilì che non si può rimpatriare una persona verso un luogo dove il cambiamento climatico rappresenta una minaccia grave per la vita. Una decisione non vincolante, ma considerata un primo segnale.
Il Global Compact for Migration adottato nel 2018 riconosce formalmente la migrazione legata al clima come un fenomeno da governare. Tuttavia, resta un documento non vincolante, privo di meccanismi operativi. I tentativi di riforma del diritto dei rifugiati in chiave climatica non hanno finora prodotto risultati concreti. Nel frattempo, l’impatto ambientale si traduce in dinamiche migratorie reali, soprattutto nei Paesi più esposti e meno responsabili in termini di emissioni globali.
Il visto australiano per il Pacifico rompe questo stallo, ma non crea un nuovo standard internazionale. È una misura bilaterale, soggetta a limiti quantitativi e discrezionali. La sua applicazione resta confinata a un ambito regionale, senza obblighi per altri Stati. Tuttavia, rappresenta un precedente politico rilevante. Se altri Paesi dovessero replicare iniziative simili, potrebbe aprirsi lo spazio per una riforma multilaterale più ampia.
Pressioni geopolitiche e incidenti diplomatici: il caso Usa
L’intervento dell’Australia ha messo in evidenza anche le ambiguità di altri attori internazionali. Nelle stesse settimane in cui Tuvalu avviava il processo di migrazione climatica verso Canberra, è emersa una tensione diplomatica con gli Stati Uniti. Un documento interno del Dipartimento di Stato ha rivelato che Tuvalu, assieme a Vanuatu e Tonga, era stato incluso in un elenco di 36 Paesi soggetti a potenziali restrizioni di viaggio verso il territorio statunitense. La notizia ha generato allarme a Funafuti.
Il governo tuvaluano ha chiesto chiarimenti formali. L’ambasciatore presso le Nazioni Unite ha parlato apertamente di un errore tecnico e ha dichiarato di aver ricevuto solo rassicurazioni verbali dall’ambasciata statunitense a Fiji. Il Dipartimento di Stato ha affermato che nessuna decisione definitiva è stata presa, e ha precisato che le preoccupazioni espresse da Tuvalu “non riflettono accuratamente” la posizione ufficiale americana. Intanto, Tonga ha ricevuto un avviso formale e Vanuatu non ha risposto pubblicamente.
Per Tuvalu, la vicenda rappresenta un campanello d’allarme. In un contesto di crescente fragilità climatica, l’accesso ai Paesi sviluppati può diventare un nodo strategico, non solo per la protezione delle persone ma anche per la continuità economica e diplomatica. L’episodio con gli Stati Uniti dimostra quanto sia instabile il quadro internazionale per gli Stati più piccoli, costretti a cercare garanzie formali anche dove un tempo bastava la diplomazia informale.