Manager italiani sull’orlo di una crisi di nervi

Tra burocrazia, stress e tecnologia inefficace
23 Maggio 2025
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Lavoratrice Stressata

In Italia, fare il manager oggi non significa guidare l’azienda con visione e strategia, ma spesso sopravvivere in un campo minato di urgenze, burocrazia e carichi di lavoro ingestibili. Secondo l’indagine condotta da Beyond per Factorial, l’83% dei manager italiani soffre di stress o ansia legati alla disorganizzazione interna. Il dato racconta la realtà quotidiana di chi si trova a dirigere team e progetti in un contesto dove le regole sono spesso confuse, i processi macchinosi e gli strumenti di supporto poco integrati.

L’immagine del manager come figura centrale nella crescita aziendale è stata sostituita da quella di un operatore multitasking, sommerso da incombenze operative. Due manager su tre dichiarano di fare regolarmente straordinari per coprire le inefficienze del sistema e il 63% afferma di aver sacrificato momenti di vita privata per risolvere problemi professionali. La leadership, in questo contesto, perde efficacia: l’89% dei manager non riesce a costruire rapporti solidi con il proprio team, un dato che impatta direttamente sulla motivazione dei collaboratori e sulla capacità di trattenere i talenti.

Il titolo manageriale, insomma, si sta svuotando di senso. Il 25% degli intervistati afferma che il proprio ruolo non corrisponde affatto alle aspettative iniziali, mentre oltre il 40% della giornata lavorativa viene impiegato in attività amministrative a basso valore aggiunto. Il malessere diventa così sistemico, contagia l’intera organizzazione e compromette la capacità stessa di fare impresa in modo sostenibile.

Quando la tecnologia diventa un ostacolo

Paradossalmente, in un’epoca di trasformazione digitale, i manager italiani sono intrappolati in un ecosistema tecnologico che più che aiutare, complica. Ogni manager utilizza in media quattro strumenti diversi al giorno, ma questi tool raramente dialogano tra loro. Il risultato? Una frammentazione che costa all’Italia ben 9 ore lavorative a settimana per manager — più che in qualsiasi altro dei Paesi analizzati (Francia, Spagna, Portogallo e Germania).

Questa mancanza di integrazione si traduce in errori decisionali: il 25% dei manager non ha accesso tempestivo ai dati sui progetti, mentre l’88% ammette di basarsi sull’intuizione più che su analisi oggettive. Il 43% ha già sperimentato perdite economiche causate da valutazioni errate basate su dati obsoleti. In un contesto globale dove la competitività si gioca sul tempo reale e sulla capacità di adattarsi, questa lentezza operativa è un freno pesante.

La burocrazia digitale, quindi, non è meno pericolosa di quella cartacea. Il tempo speso in attività ripetitive e la difficoltà di accedere a informazioni rilevanti sottraggono energie preziose alla vera missione manageriale: guidare persone, prendere decisioni strategiche, innovare. È per questo che più di un manager su tre chiede a gran voce soluzioni di automazione, e l’82% ritiene che strumenti digitali intelligenti migliorerebbero la qualità della propria leadership.

La lezione della GenZ

Se da una parte abbiamo manager esausti, dall’altra sta emergendo una generazione che rifiuta fin dall’inizio di accettare le regole di un sistema insostenibile. La Generazione Z, oggi in fase di ingresso nel mondo del lavoro, rappresenta un cambio di paradigma culturale profondo. Il lavoro non è più visto come totalizzante, ma come parte di un equilibrio più ampio tra vita privata e professionale. Secondo il white paper dell’Osservatorio hr innovation practice della school of management del Politecnico di Milano e di Indeed, quasi la metà dei giovani considera imprescindibile scegliere orari e luoghi di lavoro, e un altro 15,5% è pronto a lasciare l’impiego se mancano flessibilità e benessere.

Ma non è solo questione di orari. La salute mentale è diventata una priorità. Un giovane su due è stato assente per problemi psicologici o relazionali, e la stessa percentuale si dichiara disposta a licenziarsi pur di proteggere il proprio benessere. L’ambiente di lavoro conta più dello stipendio: il 54,4% esige un clima sano e il 44,6% chiede inclusività reale. Un quarto dei giovani non esita ad abbandonare l’azienda in presenza di relazioni tossiche.

La GenZ non vuole solo lavorare: vuole farlo in un contesto che abbia senso. Il 63,6% cerca impieghi con un impatto positivo sul mondo e uno su tre valuta il contenuto del lavoro in base al suo significato etico o sociale. È una generazione mobile, consapevole, tecnologicamente avanzata e pronta a cambiare strada se il percorso offerto non è coerente con i propri valori.

Dalla crisi manageriale alla cultura del lavoro sostenibile

Il malessere dei manager e le aspettative della GenZ non sono due fenomeni distinti, ma due facce della stessa crisi: un modello organizzativo che non funziona più. E che può essere ripensato. L’automazione non è una minaccia, ma una via d’uscita per liberare risorse cognitive e restituire centralità al ruolo umano. Se il 73% dei manager afferma che sarebbe più felice se liberato dai compiti manuali, la direzione da seguire è chiara: digitalizzazione sì, ma integrata e pensata per le persone.

Anche la formazione gioca un ruolo chiave: il 54% dei giovani valuta un impiego in base alle opportunità di crescita. L’azienda del futuro dovrà investire nella formazione continua, nella valorizzazione dei talenti e nella costruzione di ambienti sani e collaborativi. E dovrà imparare a parlare un linguaggio nuovo: quello della sostenibilità umana.

Come osserva Gianluca Bonacchi di Indeed, “il successo delle imprese passa dalla capacità di mettere le persone al centro”. Manager meno stressati e giovani più motivati non sono sogni utopici, ma elementi chiave di un modello sostenibile. La tecnologia può essere il ponte tra queste due generazioni: se usata per semplificare, automatizzare e restituire tempo e senso al lavoro, può davvero segnare la rinascita delle organizzazioni.

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